Il viaggio insicuro del camper della polizia “Questo non è amore”
Per tre mesi la Polizia di Stato sarà impegnata con camper in quattordici province italiane con l’obiettivo di avvicinare le potenziali vittime della violenza di genere
Al Viminale l’altro giorno è stato presentato il camper contro la violenza di genere, iniziativa rientrante nel progetto del Ministero degli Interni Questo non è amore, un autoveicolo con il quale si avvierà una campagna itinerante. Per tre mesi la Polizia di Stato sarà impegnata in quattordici province italiane, il primo ed il terzo sabato del mese, con l’obiettivo di avvicinare “le potenziali vittime, cercando di favorire l’emersione del fenomeno in un’ottica di prevenzione”, grazie ad un pool di esperti delle forze dell’ordine presenti nel camper, pronti a ricevere le eventuali testimonianze delle donne vittime di violenza sessuata. Dopo questo periodo di prova si tireranno le fila dell’esperimento ed alla luce dei risultati acquisiti il suddetto ministero valuterà l’opportunità di rendere il progetto valevole su tutto il territorio nazionale. Sono stati anche predisposti continui aggiornamenti sugli eventi collegati a tale iniziativa, da visionare sul sito della Polizia di Stato o su twitter con l'hashtag #questononèamore.
L’annuncio di questo progetto è stato pubblicizzato sugli organi di stampa e sulle reti televisive nazionali con interviste al ministro Alfano, alla presidente della Camera dei deputati Boldrini, nonché alla ministra con delega alle Pari Opportunità Boschi ed alla sindaca di Roma Raggi. Ma il clamore mediatico assegnato a tale evento in prima analisi stride con la realtà che in questi ultimi giorni è sotto gli occhi di tutti, ossia la chiusura di molti centri antiviolenza per mancanza dei fondi pubblici stanziati per le annualità 2015-2016. Il fenomeno della mancata erogazione dei finanziamenti pubblici cala la scure su quelli di Corsico, Pisa, Roma, Napoli e Palermo, solo per citarne alcuni. E dire che si tratta della quota del 20% sul totale delle erogazioni stabilite dalla legge 119/2013 sul femminicidio, perché la rimanente parte vede come destinatarie le Regioni che a loro volta avrebbero dovuto elargire i fondi a progetti individuati e finalizzati al contrasto della violenza di genere.
Già nel luglio del 2014, allorchè erano stati approntati i criteri di ripartizione dei finanziamenti, si erano levate voci di protesta per la scelta, prettamente politica, di attribuirne la parte più consistente alle Regioni, penalizzando in maniera rilevante i centri antiviolenza privati gestiti in modo tale da offrire servizi indipendenti alle donne in difficoltà che ad essi si rivolgevano. Invece di definire criteri qualitativi di assistenza, tali da individuare le strutture effettivamente idonee ad assicurare quel genere di tutela, si scelse allora di favorirne la nascita di nuove, al solo fine di ricevere i finanziamenti pubblici provenienti dal Fondo nazionale predisposto al riguardo. Si procedette successivamente alla conta numerica dei centri antiviolenza dichiarati tali, frammentando le risorse da distribuire, con la conseguenza di rispondere in maniera incongrua alla domanda avanzata dalle associazioni con comprovata esperienza nel settore. A ciò si aggiunge l’aggravante di computare e valutare allo stesso modo le istanze dei centri di prima accoglienza con quelle delle associazioni predisposte ad offrire assistenza continuativa e con le esigenze delle case rifugio.
Dal 2014 ad oggi si potrebbe dire che nessun controllo pubblico di qualità sia stato svolto sul lavoro messo in campo in tema di sostegno alle vittime di violenza di genere, se è vero, come è vero, quanto acclarato dall’organizzazione internazionale indipendente ActionAid, che tramite una sua piattaforma open DonnecheContano ha reso noto lo scorso novembre i risultati di una sua indagine al proposito. Ne risulta che solo sette amministrazioni locali fanno sapere in modo chiaro e trasparente come stanno utilizzando i fondi stanziati dal governo. Per cinque Regioni è stato possibile reperire la lista dei centri antiviolenza che hanno ricevuto o riceveranno i fondi stanziati per il biennio 2013/2014: Veneto, Piemonte, Puglia, Sardegna e Sicilia. Oltre che per queste Regioni, le liste sono disponibili per le due ex province di Firenze e Pistoia. Per altre amministrazioni, i dati sono deducibili reperendo altri atti amministrativi (Abruzzo) o per via del numero ridotto di strutture presenti (Valle d’Aosta e Basilicata). Per il resto delle Regioni, non è stato invece possibile reperire alcun dato. Se questa è la realtà, è evidente che ne discenda la necessità di una mappatura puntuale dei centri antiviolenza ed uno specifico riscontro sui fondi adeguati al loro funzionamento, dati da pubblicare sia sui siti delle Regioni che su quello del Dipartimento alle Pari Opportunità.
Accanto al dato inconfutabile della crisi a cui sono soggette le realtà di supporto alle vittime della violenza sessuata, c’è però un altro elemento che indurrebbe a ritenere poco giustificato il clamore generato sull’iniziativa del camper itinerante. Se sette su dieci delle donne morte di femminicidio avevano denunciato in maniera preventiva i soprusi subiti, ne discende che manca un anello tra il dichiararsi contro la violenza di genere ed il conseguente agire, come ha bene specificato un’amica di una delle ultime vittime, Bernadette Fella. “Come affrontare il problema della protezione di queste donne? Se a fronte di una denuncia, il magistrato non dispone il carcere -come sottolinea SOS Stalking- né gli arresti domiciliari, né altre misure, come il braccialetto elettronico, la tutela delle vittime è totalmente azzerata”. Proprio per il caso di Bernadette il Procuratore della Repubblica di Modena ha dichiarato che “non c’erano campanelli d’allarme” ben ridondanti, come se i denti rottigli con un pugno non avessero fatto alcun rumore nel cadere a terra. Mentre invece per il femminicidio di Enza Avino i giudici del Riesame non disposero gli arresti domiciliari per il suo aguzzino sul presupposto che “non vi era però ragione per non limitare al minimo i sacrifici imposti all’indagato, con l’applicazione di una misura che fosse la meno deteriore per la sua sfera familiare e lavorativa».
In Italia non c’è, quindi, “un vero e proprio processo di protezione dal momento della denuncia in poi- sostiene Titti Carrano, presidente di DiRe, rete che coordina in Italia 75 centri antiviolenza -, dovremmo avere un posto letto nelle case rifugio ogni 7500 abitanti ed un centro d’emergenza ogni 50.000 e invece a fronte di 5700 posti letto necessari ne possiamo contare solo 500”. Entrando poi nel merito dell’iniziativa del camper della Polizia di Stato la presidente Carrano precisa che occorrano interventi di largo raggio “per costruire azioni ed ottenere risultati, mai prescindendo dal confronto con le associazioni delle donne e con i centri antiviolenza che conoscono e fronteggiano questa tragedia per davvero”. Cosicchè al capo della Polizia, Gabrielli, che in occasione della presentazione ai media del progetto Questo non è amore ha avuto modo di sottolinearne lo scopo, ossia “di recuperare quel sommerso che il dato statistico non può cogliere”, si potrebbe ironicamente avanzare un suggerimento. Più che di un camper ci sarebbe bisogno di un sommergibile, capace di abissarsi nel cupo mare della violenza di genere per poi risalire in superficie con idee più chiare, ma soprattutto con fatti più stringenti in materia di effettivo contrasto a questo drammatico fenomeno sociale.
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