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Il velo e i suoi affini

Il velo e i suoi affini

Velate o svelate / 1 - Analisi di uno stereotipo fra in-visibilità corporea e in-visibilità culturale

Papa Ilaria Lunedi, 26/04/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2010

Come sosteneva Edward Said, l'idea che i popoli orientali, nella fattispecie quelli musulmani, siano arretrati e portatori di una diversità quasi certamente inconciliabile con la nostra società è da far risalire a quel presunto determinismo biologico che da secoli li inchioda a precise rappresentazioni, descrivendoli come soggetti improduttivi e retrogradi, addirittura pericolosi. Questa concezione - che spinge a considerare gli immigrati non tanto nell’ottica di nuovi cittadini e cittadine, ma come "problemi da risolvere o circoscrivere"- si riverbera nella rappresentazione della donna immigrata alimentata dai media.

Il governo francese si appresta a vietare il burqa e la notizia scatena in Italia l'interesse per un argomento che il più delle volte rimane fermo alla diatriba superficiale e strumentale, per poi sfumare nel disinteresse. Strano destino delle donne musulmane, alle quali non potendosi attribuire gli stereotipi che tanto decantarono scrittori-viaggiatori come Flaubert e Nerval, si continua ad attribuire, attraverso altri stereotipi, l'idea di una medesima debolezza, incapacità di pensiero autonomo verso l’insieme di valori e pratiche di cui il mondo maschile è il principale organizzatore e manipolatore. Colpisce che la questione complessa della cultura delle immigrate sia tirata in ballo soprattutto sulla spinta di eventi di cronaca o presunte crociate di qualche esponente politico che vorrebbe liberarle in un colpo solo da quei simboli, senza badare alla loro opinione e al loro vissuto. Insomma, nei media le donne musulmane sono pressoché invisibili, se non quando si tratta di negare o giustificare la loro invisibilità corporea.

E puntualmente i giornali propongono distinzioni fra hijab, niqab, burqa o chador, istruzioni per chi si troverà a dover incrociare tali stranezze. Eppure è interessante riflettere su come i media trattano lo stereotipo del velo. Se una minoranza intellettuale si spinge a cercare interpretazioni più aggiornate del Corano, nell’esigenza di circoscriverne l'uso e ricondurlo a un fraintendimento linguistico, c'è chi prova a recuperare curiose analogie con la storia cristiana. Questi tentativi non sono nuovi: già alla fine dell’ottocento, Qasim Amin ne ‘La liberazione della donna’ invitava la donna araba a togliere il velo, sostenendo che non era imposto dalla religione. Come sempre è un problema più culturale e sociale: le donne siciliane o pugliesi che si velavano fino a pochi anni fa non lo facevano pensando a San Paolo, ma seguendo una tradizione mediterranea molto più antica iscritta da secoli nel loro codice di comportamento. Però, oltre a rare notizie che relazionano il velo con l’emancipazione di genere e ricordano magari che “una delle consulenti di Obama è un' americana velata”, c'è da segnalare un uso molto più cospicuo del termine con una valenza negativa, come si legge in un titolo de Il Giornale (S. Tramontano, Sotto il velo della Daddario, 31-7-2009). A questa concezione, che attribuisce al velo un contenuto inquietante e torbido, si ricollega quella che lo vede alla stregua di una maschera, tanto cara agli esponenti della Lega, aficionados dello stereotipo che lo liquidano appellandosi a un provvedimento antiterrorismo. Il tema della paura ha contrassegnato anche la polemica sul burkini, il costume da bagno vietato da alcuni sindaci leghisti. E mentre sul Corriere, M.L. Rodotà rassicura che “è integrale come i costumi dei nuotatori agonistici”, c’è chi, con una vena di commiserazione femminile, sposta l’attenzione sul costume “fai da te” (A. Sandri, Burkini in piscina, La Stampa, 19-8-2009). I giornalisti uomini, quando non apertamente ostili verso le “prefiche del multiculturalismo” (A.Gurrado, Il burkini è provinciale, Il Foglio, 27-8-2009), sembrano divertiti, come F. Merlo, che tira fuori immagini di scafandri e di suore, concludendo che “il bikini è più casto del burkini”. Più esplicito un giornalista su Libero, che si chiede “se davvero questo burkini, incrocio islamico di burqa e bikini, non sia davvero la cosa più sexy e trasgressiva dell'estate 2009”. È evidente che una simile attenzione mediatica nei confronti del velo reca in sé una visione semplificatrice della realtà: la tendenza a etnicizzare le immigrate e a ricondurle a un’unica rappresentazione costruendo una falsa retorica dell’alterità.

La storia della moda ci insegna che il vestiario cambia in base alle esigenze di vita ma anche che i simboli del passato, ritenuti obsoleti, possono diventare novità. È impensabile quindi che l’emancipazione delle immigrate - se davvero ci sta a cuore, come quella di tutte le donne - possa essere conseguita guardando solo a simboli esteriori. La questione non è tanto auspicare o meno l’abbandono dei costumi della cultura d’origine magari perché richiamano una cultura androcentrica. Le ragioni di chi vorrebbe vietare o no questi simboli possono essere entrambe valide. E sarebbe interessante cogliere almeno il senso di un’alternativa ideale e l’importanza di un confronto: in una società in cui la moda mette tutto in discussione nel giro di qualche stagione, che senso ha un vestiario che persegue altre convinzioni, che resiste ai capricci del consumismo e che chiunque, in teoria, potrebbe confezionarsi? È chiaro che questo va contro ogni regola di mercato.

Se in Francia si chiama in causa il valore della laicità, in Italia la questione ha meno schermi ed emerge per quello che è: un problema di approccio con la diversità, in una società in cui il contenitore è diventato più importante del contenuto e in cui l’immagine della donna deve apparire rassicurante, omologata, esposta come una merce più o meno accessibile. Che l’Altro, tanto caro a Levinas, non possa essere assimilato preoccupa molti, o quantomeno disorienta. A costoro fa paura, giustamente, il fanatismo religioso, ma non fa paura l’adorazione di marche e di modelli di vita esasperati, l’ostentazione di corpi plastificati e mercificati, l’annichilimento dei cuori e delle menti? Che senso ha quando si invita la donna a spogliarsi continuare invece a coprire, o persino a nascondere? La questione dei diritti di tutte le donne passa da altre priorità che questi stereotipi, presunti simboli di arretratezza o progresso, di austerità o libertà, con cui si vorrebbe inquadrarle. Del resto, nessuno impedirà a Vandana Shiva di portare un sari o penserà che Benazir Bhutto avesse problemi a causa del velo. Sarebbe importante cominciare a guardare a quello che hanno da dire le donne, e a come vivono, più che rimanere fermi a come si vestono.

 

(26 aprile 2010)

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