Parliamo di bioetica - L’attuale livello di consumo non rispetta i tempi biologici, ossia non consente la ricostituzione del capitale naturale
Maria Antonietta La Torre Lunedi, 25/10/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2010
La recente notizia del calcolo che alcuni scienziati hanno compiuto, secondo il quale a partire dal mese di agosto il nostro utilizzo delle risorse naturali genererebbe un “passivo”, ossia un’erosione del capitale e non il semplice consumo degli “interessi” prodotti, propone un linguaggio che forse può aiutare a meglio comprendere l’emergenza ambientale. L’oculata contabilità, quella del “buon padre di famiglia”, ma anche dell’amministratore previdente, presume che del capitale si utilizzino gli “interessi”, vale a dire quanto non intacca le riserve, quanto anche in futuro consentirà di continuare a godere delle medesime condizioni, mentre l’umanità sta attingendo al capitale naturale in maniera imprevidente, tale che alle generazioni future non potrà esser lasciato in eredità quanto noi stessi abbiamo ricevuto. Il riferimento è soprattutto alla capacità della natura di ricostituire ciò che viene prelevato o utilizzato: l’attuale livello di consumo non rispetta i tempi biologici, ossia non consente la ricostituzione del capitale naturale, ma preleva prima che alla natura sia possibile tornare alla propria condizione di equilibrio.
Tra gli indicatori della qualità ambientale vi è, non a caso, la capacità di resilienza, ossia di ricostituire un equilibrio in seguito a un’alterazione. Ora, perché la natura sia capace di reagire al prelievo e ricostituire le proprie riserve, è essenziale che essa sia non omogenea, bensì varia, ossia dotata di una molteplicità di opportunità e mezzi di crescita e ri-crescita. È questo, infatti, il nodo problematico centrale, intorno al quale è possibile ricomporre le diverse istanze dell’ambientalismo, o, potremmo dire, l’indicatore che le riassume tutte e consente una misurazione complessiva: l’azione di depauperamento, dall’inquinamento, che determina l’estinzione di specie viventi, alle monoculture intensive, che alterano il rapporto tra le diverse specie, si estrinseca principalmente nella minaccia alla biodiversità. Questa fu compiutamente definita nella Convenzione sulla diversità biologica, elaborata in occasione del vertice di Rio del ‘92 e sottoposta all’adesione dei diversi Paesi (attualmente 192), come “la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi tipo, inclusi, tra l’altro, gli ecosistemi terrestri, marini e gli altri ecosistemi acquatici e i complessi ecologici dei quali fanno parte; essa comprende la diversità all’interno di ogni specie, tra le specie e degli ecosistemi”. Dunque, la tutela della biodiversità include tutti gli organismi viventi e tutte le specie. Ma non è tanto l’ampiezza della definizione che qui interessa, poiché, anzi, un’eccessiva estensione può produrre l’opposto effetto di far giudicare gli obiettivi proposti irraggiungibili o generici, quanto l’idea in essa contenuta della strutturale interrelazione tra tutti i viventi: questo è il nodo-chiave che la convenzione proponeva e che anche una misurazione economica delle risorse deve considerare, ossia un approccio ecosistemico, che significa concepire tutti i viventi, inclusa l’umanità, come parte del sistema e dunque responsabile per esso. La protezione della biodiversità rappresenta una sfida per la green economy, poiché la sua tutela è certamente un dovere morale, ma è anche una necessità per il mantenimento di condizioni di sopravvivenza di un’umanità futura. Questo genere di contabilità ambientale, apparentemente arida e insoddisfacente per chi nella difesa della natura veda un dovere etico, serve tuttavia per misurare la consistenza delle risorse naturali, i loro cambiamenti e gli effetti delle azioni umane sull’ambiente. Da tale punto di vista, la sostenibilità è la massima quantità di “capitale” che può essere utilizzata senza pregiudicare in futuro il consumo che mantiene intatto il capitale stesso, ossia la biodiversità. Naturalmente il “prezzo” o il “costo” che la perdita di risorse comporta non è un indicatore sempre idoneo, ma è forse quello più facilmente utilizzabile per sollecitare strategie di ripensamento dello sviluppo. Tale approccio infatti implica la consapevolezza che la natura è una risorsa finita, soltanto in parte rinnovabile e ha una limitata “capacità di carico”, ossia riesce a sopportare una quantità definita di inquinanti risanando il danno subito, ma, una volta superata una certa soglia, non riesce a riassorbirlo in tempi ragionevoli e l’effetto è spesso irreversibile. La misurazione della capacità di carico ci consente di valutare quanta “interferenza” o prelievo o presenza umana un’area possa sopportare prima di pervenire a un punto, per così dire, di non ritorno, cioè di perdita definitiva di qualche elemento costitutivo. Anche chi ritiene che tutto sommato la preoccupazione per le generazioni future sia un lusso dei paesi ricchi oppure denoti semplicemente una mancanza di fiducia nelle possibilità che la tecnica offrirà di compensare i danni, può in tal modo comprendere praticamente che cosa comporti l’erosione della biodiversità.
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