Login Registrati
Il tempo della ‘rivoluzione biologica’

Il tempo della ‘rivoluzione biologica’

Biolibertà - Nuovi modelli di comportamento ed un’etica della responsabilità: Luisella Battaglia è per una Bioetica senza dogmi

Bartolini Tiziana Lunedi, 22/11/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2010

Luisella Battaglia è docente di Bioetica e Filosofia Morale presso l'Università di Genova e l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, è Direttore scientifico e fondatrice dell'Istituto Italiano di Bioetica e dal 1999 è membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.






La bioetica è materia affascinante e ‘richiosa’ poiché l’attualità dei tanti temi che nel suo ambito sono affrontati attira nel dibattito istanze ideologiche e politiche che non aiutano ad approfondire e a comprendere. Con Bioetica senza dogmi Luisella Battaglia, che intervistiamo, affronta l’argomento “attraverso un continuo confronto tra il mondo della scienza (in particolare della medicina e della genetica) e la società, considerata in tutte le sue possibili declinazioni, politica, religiosa, comunicazionale, economica”. È proprio in considerazione del “significativo esempio di dialogo possibile tra le due culture” che recentemente il saggio ha ricevuto il Premio Letterario “Le due culture” 2010 nell’ambito del Meeting organizzato da Biogem, che auspica un rapporto dialogico tra scienza e saperi altri a partire dal riconoscimento della complessità del fenomeno “vita”.



La vita, appunto, un argomento che sembra essere monopolizzato da chi ha una visione religiosa del mondo. Cosa vuoi dire a questo proposito con il tuo saggio?

La proposta che avanzo riguarda la possibilità per noi oggi di pensare ad una ‘buona vita’ da intendersi come piena realizzazione delle nostre capacità: un’idea antica, di ascendenza aristotelica, che si può identificare con la felicità. Le visioni dominanti nel dibattito bioetico si rifanno o ad una concezione fondata sulla sacralità della vita – intesa come un dono divino di cui l’uomo non può disporre – o ad una concezione che si richiama alla qualità della vita – e quindi come possesso di cui l’uomo ha piena disponibilità. La prima è una visione eminentemente religiosa che limita in modo sostanziale le scelte a nostra disposizione perché si rifà ad un ‘idea di natura come dato immutabile su cui l’uomo non ha potere d’intervento; la seconda è una prospettiva dichiaratamente laica che apre un grande ventaglio di possibilità di scelte – relative,ad es. alla procreazione o al momento finale della vita – ma che si limita all’obbiettivo di eliminare le condizioni della sofferenza, senza promuovere un’idea di bene come ‘fioritura umana’. Nel mio saggio cerco di superare tale dicotomia suggerendo che il bene per noi possibile è tutto ciò che, a partire dalle capacità e dalle opportunità oggi accresciute dalle biotecnologie, è in grado di situare il ‘ben vivere’ all’interno di un progetto di autorealizzazione della persona. Per una buona vita è dunque indispensabile il riconoscimento delle differenze, l’affermazione del nostro diritto di essere diversi nell’adesione a quello stile morale che imprime ad ogni vita un carattere irriducibilmente personale.

Se fondamentale è la difesa dei diritti individuali altrettanto importante è l’apertura alla socialità: centrale è dunque il tema della cura che dovrebbe essere esteso alla sfera della vita pubblica, fondando un’idea solidale di cittadinanza.



Il titolo Bioetica senza dogmi sembra quasi voler parlare a chi di questi temi vuole fare una bandiera. Una provocazione, la tua?

Il mio è un invito a un pensiero libero da ogni affidamento ad una autorità e quindi capace di orientarsi nelle scelte esistenziali senza l’appoggio di certezze dogmatiche. Il dibattito in bioetica è infatti ,oggi più che mai, diviso tra sostenitori di opposte visioni che pretendono per sé la verità: la nostra etica pubblica è invasa da un dogmatismo malamente mascherato sotto affermazioni altisonanti, quali, ad es., l’appello a valori cosiddetti ‘non negoziabili’, iscritti – si afferma – nella natura umana stessa e quindi sottratti d’imperio ad una disamina critica. Ciò dà vita ad un fenomeno assai preoccupante: il dualismo tra ‘coloro che sanno’, i depositari di tecnoscienze iperspecialistiche, e ‘coloro che non sanno’, ovvero la popolazione nel suo complesso. La stessa complessità delle questioni bioetiche sembra, d’altra parte, favorire una ‘fuga dalla libertà’, la rinuncia a pensare autonomamente e la delega, da parte dei cittadini, agli ‘specialisti’per decisioni che riguardano la loro vita e la loro salute: da qui la necessità di operare per una democratizzazione della conoscenza, favorendo – come avviene in altri paesi - la diffusione del sapere oltre l’età scolare e al di là dei recinti universitari. È qui che la bioetica incontra la biopolitica. Dinanzi alla crescenti tentazioni paternalistiche di uno stato etico che pretende di imporre la sua concezione del bene nelle sfere più intime e personali – ne sono un esempio la legge 40 in materia di fecondazione assistita e l’estenuante lotta per il testamento biologico – occorre pensare ad una biopolitica non autoritaria, ispirata ad un diritto mite, che consenta a ciascuno di operare le proprie scelte senza che la società se ne senta minacciata e senza che le biotecnologie vengano demonizzate per il loro interferire col corso della natura.



Che cosa significa, oggi, parlare di bioetica?

Se ne può parlare almeno in due accezioni. Accanto a una bioetica ‘quotidiana’ che si occupa di problemi che riguardano la nostra vita di tutti i giorni, quindi delle questioni relative alla salute, alle relazioni tra medico e paziente, all’inizio e alla fine della vita, alle nuove possibilità offerte dalla medicina – ad es., i trapianti -, esiste una bioetica di ‘frontiera’che affronta temi meno legati alla nostra quotidianità ma che sono, per così dire, ‘dietro l’angolo’ – come l’ingegneria genetica e le sue applicazioni – e che tuttavia, per la loro importanza, non possono essere trascurati. È qui soprattutto che si profila il rischio di una ‘dittatura degli esperti’e per questo c’è bisogno di un’etica dell’informazione a sostegno di un’etica della responsabilità. Oggi siamo alle soglie di una delle più importanti rivoluzioni tecnologiche della vicenda umana, la cosiddetta ‘rivoluzione biologica’.Se, fino ad un’epoca recente, la manipolazione della natura era concepita come emancipazione umana, è maturata in questi anni una presa di coscienza in virtù della quale lo sviluppo della scienza non provoca unicamente processi di emancipazione ma anche di rischi di asservimento dell’uomo e di stravolgimento del suo ambiente. Le questioni affrontate dalla bioetica si riferiscono infatti non solo alla pratica medica, alla genetica, alla sperimentazione clinica, ma anche alla vita degli ecosistemi e alla tutela delle specie animali, il che esige da noi l’elaborazione di nuovi modelli di comportamento ispirati ad un’etica della responsabilità. In questo senso la vera novità rappresentata dalla bioetica consiste nel suo proporsi come “un’etica per il mondo vivente” che ci invita a ripensare all’immagine del mondo e di noi stessi nel mondo, oltrepassando le frontiere dello spazio (un’etica planetaria), del tempo (le generazioni future), della specie (la natura e gli animali non umani).



Nel tuo saggio un capitolo è dedicato alla prospettiva di genere. Perché?

L’agenda delle questioni più importanti della bioetica ha avuto mutamenti significativi da quando si è introdotto il punto di vista della differenza di genere e si è mostrato come la prospettiva della ‘neutralità asessuata’ sia un ostacolo all’approfondimento di tematiche cruciali che esigono una ‘presa in carico’ delle differenze e quindi, innanzitutto, il riconoscimento della propria identità sessuale, intesa come un fattore decisivo nel modo di vivere, di pensare e di pensarsi. Potremmo dire che uno degli scopi principali del pensiero femminista in bioetica è stato fin dall’inizio quello di mettere in evidenza le questioni di potere (potere nel senso di autonomia, consapevolezza, potere su se stessi,sulla salute, sulle scelte riproduttive,terapeutiche etc.) e dunque denunciare l’oppressione subita dalle donne. Basti pensare ad argomenti come la salute femminile, il ruolo delle donne sia come pazienti che come professioniste in ambito medico, le nuove tecnologie riproduttive e le loro implicazioni sul piano morale, giuridico, sociale,o l’esclusione delle donne come soggetti di ricerca e il suo significato ambivalente .In questo contesto sono maturate le istanze di democratizzazione della bioetica,la ricerca di forme nuove di consultazione e di empowerment, l’inclusione dei ‘soggetti deboli’, l’esigenza di ‘dare voce a chi non ha voce’. Pur nella grande varietà di competenze e nella differenza di prospettive teoriche espresse dal femminismo liberale, radicale e culturale, è possibile riconoscere alcuni tratti comuni: una costante attenzione per la specificità, la realtà particolare ed esistenziale dei soggetti coinvolti; un forte interesse per il concreto (il ‘vissuto’ delle donne e la quotidianità dei loro bisogni) ma anche per la dimensione simbolica (il significato della corporeità, il valore della sfera affettiva etc.); una riflessione critica sulla scienza,la tecnologia e l’impatto sul sociale della ‘rivoluzione biologica’ incentrata sulla nozione di limite.



Perché parli in modo specifico della ‘bioetica degli animali’?

Per rispondere vorrei partire da un’espressione di uso comune: ”Non siamo mica bestie!”,un’espressione che serve assai bene a manifestare una profonda indignazione morale dinanzi a situazioni di violenza e di brutalità che denunciamo come inumane. Proviamo tuttavia, per una volta, a concentrarci sul termine di paragone: gli animali. Dal fatto che è ingiusto infliggere certi trattamenti agli umani (ad es., stiparli in vagoni piombati, trasportarli per giorni e giorni senza acqua, cibo e riposo, farli morire per lo stress e la fatica) segue forse che sia giusto infliggere questi stessi trattamenti ai non umani? La bioetica ci invita appunto a compiere questo esperimento mentale. La crescita delle nostre conoscenze sulla vita animale, grazie all’etologia, ha suscitato infatti importanti interrogativi circa i confini dell’universo cui si riferisce il nostro discorso morale.

Perché dunque accettiamo come non problematico il modo in cui ci comportiamo con gli animali? Per rispondere occorre arrischiare le nostre idee, le nostre intuizioni più rassicuranti, prendendo le distanze dalle consuetudini e dai pregiudizi di un sistema culturale che percepiamo come naturale: un sistema basato sull’idea chiave della superiorità ontologica dell’uomo sul resto della natura. Siamo stati abituati a considerare gli animali come una proprietà che ci appartiene di diritto, come risorse da sfruttare, beni da amministrare; sennonché il fatto che i non umani siano considerati come cose non li trasforma in cose: non cessano, in altri termini, di essere creature dotate di sensibilità e di interessi, nei cui confronti pare sensato chiedersi quali principi morali è corretto adottare. Da questi presupposti parte la bioetica animale, impegnata a denunciare la sofferenza come male per ogni essere vivente e ad affrontare la questione davvero cruciale della giustizia tra le specie: una giustizia cui l’uomo sembra chiamato dal momento che avere potere su altri esseri viventi non dà licenza di fare ciò che si vuole, né significa che non vi siano limiti morali al suo esercizio.





(22 novembre 2010)

 

Lascia un Commento

©2019 - NoiDonne - Iscrizione ROC n.33421 del 23 /09/ 2019 - P.IVA 00878931005
Privacy Policy - Cookie Policy | Creazione Siti Internet WebDimension®