Multiculturalità - Il nesso cultura-genere è un termometro che misura il grado di “fusione dei mondi” e la capacità di gruppi e individui a vivere in equilibro tra meticciato, identità e differenze
Stefania Friggeri Lunedi, 03/05/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2010
In Italia, a differenza che in Francia, non viene posta la questione del velo, piuttosto si solleva il diritto di indossare il burka, che rende irriconoscibile la persona. Ma se volessimo affrontare seriamente (lo vogliamo?) le problematiche della società multiculturale, forse dovremmo anche interrogarci sulla condizione delle donne immigrate all’interno della comunità di appartenenza, a cominciare da quelle che vivono in una famiglia poligama, dalle mogli bambine, ultimo caso quello della quattordicenne Amina: comprata, violentata, segregata, schiavizzata. Poi ci sarebbe il caso, in Francia, dello sposo marocchino il quale, avendo scoperto che la moglie non era vergine, ha chiesto il divorzio, così come è previsto dalla legge islamica, la sharia. E allora quale linea guida adottare, quale principio valoriale mettere a fondamento di una politica dell’accoglienza che cerchi di dare una soluzione equa a questioni che nascono da posizioni di partenza inconciliabili? Nel Regno Unito lo stesso Lord Phills, il giudice più alto d’Inghilterra, ha dichiarato recentemente che la sharia “può avere un ruolo nel sistema giudiziario britannico”. In effetti il Regno Unito ha adottato da tempo un multiculturalismo inclusivo che prevede per i residenti provenienti dai paesi del Commonwealth il diritto di voto, l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale, la scuola. La politica di ospitalità e rispetto verso la diversità culturale ha arricchito la società britannica, ne ha fatto un mondo di straordinaria vitalità, e tuttavia non ha evitato la formazione di comunità chiuse nella difesa del loro stile di vita tradizionale. Così che, accanto a varie e interessanti forme di cultura ibrida e meticcia, vedi il mondo musicale e dell’arte, la società si è frammentata in diverse comunità, fortemente omogenee al loro interno dal momento che il singolo non gode di una condizione di piena autonomia nella costruzione della propria identità. Questo perché si parte dal presupposto che l’appartenenza alla comunità sia una specie di estensione dell’io, che l’identità di un individuo appartenga alla comunità in cui nasce, e dunque venga a dipendere in primo luogo dall’etnia e dalla religione. E accade così che nel Regno Unito le scuole religiose per bambini musulmani induisti e sik, siano il primo passo verso una società disarticolata dove la giusta preoccupazione di rispettare le culture tradizionali non favorisce l’integrazione “collocando i bambini nell’ambito di affiliazioni uniche ben prima che arrivino ad avere la capacità di scelte razionali riguardo ai diversi sistemi di identificazione” (Amartya Sen). Da qualche anno infatti anche in Occidente ci si riferisce alla religione come espressione di una differenza culturale che andrebbe salvaguardata anche a costo della violazione dei diritti umani fondamentali sanciti dalle convenzioni internazionali, a cominciare dai diritti delle donne. Anche perché un malinteso multiculturalismo, trascurando il nesso cultura-genere, ha sottovalutato quanto gravano le norme sociali comunitarie sulla vita personale, sessuale, riproduttiva della donna, sottomessa a regole culturali che frequentemente impongono pratiche violente: mutilazioni sessuali, reclusione negli spazi domestici, codici di famiglia oppressivi e così via. Concludendo: nell’urgenza di produrre discorsi contrastanti il montante razzismo, si è finito talora con lo sposare visioni totalmente acritiche nei confronti di aspetti deplorevoli presenti presso alcune comunità, anche perché spesso gli immigrati, nello smarrimento identitario, si aggrappano alla tradizione nativa per trovare un ancoraggio, per superare il senso di vuoto e di irrealtà; e così può accadere che nelle nicchie comunitarie venga riproposto un costume consuetudinario che in patria sta ormai tramontando (vedi la poligamia in Marocco). Ma il rispetto delle tradizioni culturali non autoctone non deve assecondare le pretese di autoritarismi politici e religiosi che si arrogano il diritto di parlare a nome di un gruppo sociale compatto, quando invece all’interno di ogni cultura, per quanto coesa e omogenea, non mancano opposizioni e resistenze. Non solo: se è fondamentale che la comunità non schiacci l’individuo, è altrettanto fondamentale che la comunità, lasciando gli individui liberi di esprimersi, di fare esperienze, di evolversi, non si chiuda in sé stessa ma mantenga un guscio poroso attraverso cui avere uno scambio con l’esterno: solo così potremo avere quel miscuglio di voci, di culture, da cui può nascere una lenta faticosa fusione di mondi.
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