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Il sapere condiviso

Il sapere condiviso

I queer studies nell'università italiana ridisegnano le modalità di trasmissione del sapere. Intervista a Angela Balzano, dottoranda in Diritto e nuove tecnologie presso l'Alma mater studiorum di Bologna

Giovedi, 12/02/2015 -
Angela Balzano è dottoranda in Diritto e nuove tecnologie presso l’Università degli studi di Bologna dove cura insieme a Raffaella Lamberti, e in collaborazione con la cattedra di Filosofia del diritto della Prof.ssa Faralli e l’Ass. di donne Orlando, il corso Etica e politica negli studi di genere. Eppure, come lei stessa ammette, quella di dottoranda non è una definizione che la rappresenta in toto; «mi vivo come una studiosa che mette a disposizione il suo desiderio di apprendere. Se imparo qualcosa è solo perché voglio farlo circolare in senso orizzontale». Il sapere inteso come bene comune, la sua trasmissione attraverso pratiche nuove escludenti le gerarchie, è il portato dei queer studies, che Angela incrocia nella sua esperienza di militante e ricercatrice. Entrata nelle aule universitarie, la teoria queer cambia la forma del pensiero istituzionale, destabilizzandolo dall’interno e aprendolo all’interdisciplinarietà.



Judith Butler pubblica Questione di genere nel 1990 e Corpi che contano nel 1993. Entrambi i testi costituiscono un punto di riferimento per la queer theory, espressione questa coniata da Teresa De Lauretis nel 1990. Cosa ha rappresentato il pensiero butleriano nel contemporaneo dibattito teorico femminista?



Questione di Genere ha avuto un impatto non trascurabile sulla Teoria Femminista, soprattutto grazie alla sua accurata spiegazione del genere come performativo e reiterato, come spiega la stessa Butler:



"L’azione del genere richiede una performance che è ripetuta. Questa ripetizione è allo stesso tempo un riattuare e un rifare esperienza di una serie di significati già istituiti socialmente; è la forma corrente e ritualizzata della loro legittimazione. Per quanto ci siano corpi individuali che attuano queste significazioni divenendo stilizzati secondo modalità di genere, questa “azione” è un’azione pubblica. […] La performance è realizzata allo scopo strategico di mantenere il genere all’interno di questa cornice binaria, uno scopo che non può essere attribuito a un soggetto, ma che, anzi, va inteso come ciò che fonda e consolida il soggetto".



Tale riflessione è importante anche per la re-interpretazione delle nostre scelte soggettive, e forse è questo il contributo di Butler che vedo più ripreso in Italia: genere significa genderizzazione. A partire dall’attività intellettuale di Bulter si è diffusa una nuova consapevolezza: il genere è una sorta di agire, un’incessante attività in svolgimento. La materia non è mai declinata in senso statico, immutabile o passivo, solo come materia modellata da forze esterne; piuttosto essa è descritta con enfasi come «un processo di materializzazione». Tuttavia tale processo (dinamico, mutevole, complesso, diffrazionale e performativo) non detiene alcun primato sulla materializzazione, né la materializzazione può essere ridotta ai soli termini processuali. E questo è un contributo filosofico di grande rilievo, che trova echi e assonanze con il pensiero di molte altre filosofe del neo-materialismo femminista, mi vengono in mente Rosi Braidotti e Karen Barad (quest’ultima ancora troppo poco nota in Italia). Vi è un altro contributo di Butler molto ripreso in Italia, ovvero il suo appello a ripensare le categorie di umano e di soggetto, appello che non ha però i caratteri del postmodernismo. C’è un passaggio in Fare e disfare il genere che ilustra bene come per Bulter le questioni dell’umano e del soggetto non si possano liquidare, perché ancora irrisolte, auto-definendoci come “post”. Emblematicamente Butler scrive: «Il movimento trans e il movimento intersessuale a mio avviso non sono postfemministi. Entrambi, al contrario, trovano nel femminismo importanti risorse concettuali e politiche, e il femminismo rappresenta per loro una continua sfida, oltre che un alleato».



Rispetto ad altri contesti accademici, come quello anglosassone, in Italia i queer studies non hanno avuto la stessa diffusione. Ciò nonostante, sembra che dei cambiamenti siano in atto anche nelle nostre università. Qual è la tua esperienza al riguardo?



Abbiamo assistito anche in italia a una moltiplicazione di genealogie che indagano le implicazioni costruttiviste di qualsiasi presupposto naturale, nell’ambito di quella che potrebbe essere letta come un’ondata di letteratura radicale, neo-femminista e collegata al successo e all’influenza dell’opera di Judith Butler. Penso alle pubblicazioni di Liana Borghi, Elisa G.Arfini, O. Guaraldo, L. Bernini, F. Zappino, studiose e studiosi di ambiti differenti, che animano oggi i queer studies italiani.

Inoltre, a Bologna curo da sei anni, insieme a Raffaella Lamberti, il corso transdisciplinare Etica e politica negli studi di genere, in collaborazione con la cattedra di Filosofia del diritto della Prof.ssa Faralli e l’Ass. di donne Orlando. In questo corso invitiamo ogni anno relatrici e relatori che vengono da ogni parte di Italia. Tra le ricercatrici-docenti-giornalisti invitati negli anni, Judith Butler è un riferimento costante. Di recente poi, la redazione di Lavoro Culturale ha chiesto a Raffaella Lamberti e me di recensire la riedizione di Undoing Gender. In quest’occasione ci siamo ritrovate a riflettere sul fatto che il corso stesso quest’anno aveva un titolo le cui parole chiave rimandano moltissimo ai temi trattati da Butler in Fare e disfare il genere: “vita, sopravvivenza, convivenza”.



Come reagisce il sapere accademico di fronte ai queer studies? Pensi che il queer possa contribuire a demolire le forme convenzionali della produzione del pensiero accademico e della sua trasmissione?



Questa è una bella domanda. Se per sapere accademico intendiamo quello italiano allora dovrei fare dei distinguo. Non si può dire che vi sia ovunque un atteggiamento di contrapposizione. Vi sono centri di ricerca virtuosi dove i queer studies sono considerati una ricchezza, penso a Verona e all’attività pioneristica portata avanti da Lorenzo Bernini e dalle/dai sue/suoi collaboratrici/ori. Penso anche ad alcune “docenti femministe” che si sono dimostrate molto disponibili ad accoglierli, come Federica Giardini e Anna Simone tra Roma e Napoli. Penso a Bologna e al ruolo che hanno i queer studies per la rivista Studi Culturali, o per il nostro corso in Etica e Politica. Insomma un fermento c’è. Nonostante la totale assenza di dipartimenti veri e propri di “gender studies”, cosa al contrario molto diffusa all’estero, non si può dire che i queer studies non si siano diffusi a macchia d’olio anche da noi. Sarei propensa a vedere il lato positivo, anche se riconosco che abbiamo molto ancora da fare davanti a noi. Come tu stessa suggerisci, c’è un aspetto dei queer studies che “sconvolge” l’impianto classico della trasmissione del sapere accademico, e questo incute un certo timore nei “detentori del sapere istituzionale”, per i quali la transdisciplinarietà e l’orizzontalità rappresentano un pericolo, un attentato al loro potere di intellettuali organici. Ironicamente, il loro timore è la nostra certezza di aver colto nel segno: i queer studies tentano con ogni mezzo di destabilizzare l’accademia, se non lo facessero l’accademia li neutralizzerebbe. Un esempio notevole di questo tentativo di destabilizzazione è l’opera di Rachele Borghi a Parigi, consiglio vivamente di leggere i suoi saggi e fare un giro sul suo blog (http://zarrabonheur.wix.com/zarrabonheur-fr ) per trarre ispirazione sul come sia possibile per i queer studies stare dentro l’accademia rimanendo contro la neutralizzazione dei corpi e la privatizzazione dei saperi.



Hai studiato al Centre for the Humanities di Utrecht, dove hai scritto la tesi di laurea Genealogia di un'autonoma costituzione della soggettività sotto la direzione di Rosi Braidotti. A tale proposito, come si posiziona la ricerca italiana rispetto ad autrici e movimenti internazionali?



La ricerca in Italia c’è, solo che è sottopagata, esasperata dal precariato, stressata dai tempi di un’universtà malgestita e molto corrotta. Davvero ho tantissima stima per tutte/i le/i ricercatrici/ori che, come me del resto, sono tornati a condurre le proprie ricerche qui. Eppure in molte/i sono partiti, hanno vinto borse all’estero e lì sono rimaste/i. Secondo me, nel tentare un bilancio sulle italiane/i bisognerebbe tenere in primis presente questa fuga di cervelli, che a volte è dettata dalle necessità di aver un reddito e una speranza di vita dignitosa, a volte dalla curiosità e dal desiderio di aprirsi nuovi orizzonti di ricerca. Tuttavia, queste motivazioni possono anche coincidere. Faccio un esempio in campo scientifico: una ricercatrice che vuole lavorare sugli anticoncezionali ormonali maschili in Italia semplicemente non ha futuro. Le nostre leggi sono conservatrici e proibizioniste, la ricerca sul “pillolo maschile” è stata interrotta anni orsono e mai più riabilitata. Dunque questa ricercatrice non solo non troverà lavoro qui, ma non imparerà neppure nulla che le interessi. Deve partire per forza. Per me è stato un po’così. Avevo bisogno di un reddito ma anche di imparare cose nuove, allora ho vinto una borsa di studio per tesi all’estero e sono andata a studiare da Rosi Braidotti, che più incarnava le mie curiosità: l’incontro tra femminismo, materialismo e poststrutturalismo. Mi ha aiutata tantissimo il fatto di aver studiato direttamente molti testi in lingua inglese, di aver frequentato le Masterclass di Braidotti, grazie alla quale ho divorato Lloyd, Grosz, Parisi, Martin, Barad, Franklin, ancora non tradotte in italiano. Eppure mentre ero all’estero ho capito che non me la sentivo di abbandonare l’Italia, per vari motivi, tra cui le amiche e l’attivismo femminista (spesso le due cose coincidono). Ho scelto perciò di vivere un po’ da nomade tra Bologna e Utrecht. Dopo la tesi ho vinto un dottorato in Diritto e nuove tecnologie, ora lavoro con le Prof.sse Rosi Braidotti e Carla Faralli, che per mia grande fortuna condividono quest’approccio nomade a transdisciplinare alla ricerca, ma anche l’apetura verso autrici e movimenti internazionali.

Comunque le italiane sono molto curiose e attente, vivono già l’Europa come un territorio che le appartiene in toto. Soprattutto le più giovani, tutte le studentesse di cui ho seguito le tesi di laurea hanno fatto periodi all’estero e integrano le loro bibliografie con testi in lingua inglese, spagnola, francese. Anche nella mia esperienza di traduttrice sono arrivata alla stessa conclusione. Dopo la pubblicazione di La vita come plusvalore (OmbreCorte, Verona, 2013) della Cooper c’è stato un gran parlare, ho fatto molte presentazioni in giro per l’Italia e adesso con la DeriveApprodi stiamo per far uscire il volume che ha scritto insieme a Waldby, Bio-lavoro globale (DeriveApprodi, Roma forthcoming 2015). Il libro uscirà tra gennaio e febbraio, e già a novembre e dicembre Federico Chicci e Brunella Casalini mi hanno invitata a parlarne ai loro corsi (ancora li ringrazio per questo “giro di prova”). Spesso ci svalutiamo, e questo non ci fa bene. Nella mia esperienza sono molte le docenti e i ricercatori che guadano all’estero con apertura e curiosità. E molte/i sono le italiane/i che pur essendo all’estero intrattengono un vivo dialogo con chi è rimasto in Italia. Anche su questo ho avuto esperienze felici: Rosi Braidotti in primis, ma anche Francesca Ferrando e Mauro Turrini sono italiane/i per me fondamentali, il fatto che risiedano all’estero e che conducano altrove le proprie ricerche è una ricchezza, un motivo in più di confronto e scambio.



Hai partecipato all’edizione 2014 della Primavera Queer, momento di discussione e formazione sulla teoria queer, organizzata a Chieti da un gruppo autonomo di studenti e studentesse dell’Università d’Annunzio e dei collettivi Laboratorio Le Antigoni e La Mala Educacion. Come si interseca la tua esperienza di dottoranda con movimenti creativi che ridisegnano le identità di genere attraverso esperienze empiriche di varia espressione?



Della Primavera Queer conservo uno splendido ricordo. Gli/le studenti e studentesse dell’Università d’Annunzio e dei collettivi Laboratorio Le Antigoni e La Mala Educacion hanno avuto una grande intuizione e sono stati davvero brave/i nell’organizzare il tutto. Spero vivamente che si facciano promotrici/ori di altri momenti simili. Questi momenti sono per me di un’importanza strategica. La formazione è un terreno essenziale per il cambiamento sociale. Abbiamo letto e in un certo senso agito Foucault, sappiamo ormai che la formazione della soggettività è imprescindibile. La parola formazione, tuttavia, è passibile di più declinazioni pratiche. Se formazione significa ripetere ogni anno la stessa solfa a un gruppo di studenti ammassati in un’aula universitaria, che non hanno neppure scelto quel corso perché considerato obbligatorio(i famosi propedeutici), allora non mi interessa. Del resto ne ho ancora memoria, ho solo trent’anni, e sono toccate pure a me le classiche lezioni frontali: il circolo dell’auto-referenzialità. Pensavo sempre “basta!così non impariamo niente”, ma ricordo anche di aver capito che se volevo insegnare della filosofia politica, non lo avrei mai fatto così. Ho sempre cercato altre forme di formazione, insieme a molte altre/i. Nella mia esperienza i collettivi universitari sono stati importanti quanto quelli femministi. La triennale l’ho fatta a Napoli, dove con la rete Uniriot tenevamo sempre corsi autogestiti, invitavamo i docenti ma chiedevamo sempre loro di attenersi, nel preparare le lezioni, alle domande che inviavamo loro prima. Studiavamo insieme e ognuna/o di noi, a turno, preparava delle relazioni introduttive per ogni lezione. Quando mi sono trasferita a Bologna per la magistrale, ho cercato i collettivi universitari per continuare in questa direzione e ho incontrato persone stupende, ho attraversato l’esperienza dell’Onda, partecipato a svariati collettivi femministi. Poi sono approdata al Centro delle donne e alla Biblioteca Italiana delle donne, due luoghi fondamentali per la produzione di teoria femminista, non solo nella città di Bologna oserei dire. In tutte queste occasioni, grazie a tutte le persone che ho incontrato sul mio percorso, ho capito che la produzione e la trasmissione di saperi o sono comuni o, semplicemente, non sono. Bisogna, per questo, osare, cercare nuove forme espressive che prevedano lo scambio di conoscenze in direzioni molteplici. Devo dire che quella di dottoranda non è neppure una definizione che sento come esauriente, non mi rappresenta in toto. Mi vivo come una studiosa che mette a disposizione il suo desiderio di apprendere. Se imparo qualcosa è solo perché voglio farlo circolare in senso orizzontale. A volte le studentesse che sono in tesi con me mi ringraziano eccessivamente, perché magari presto loro i libri che ho a casa, perché leggo e correggo davvero quello scrivono. Ma questo è il minimo, tutte/i coloro che insegnano dovrebbero comportarsi così! Ricordo che i Prof. G.Borrelli e A.Arienzo hanno fatto lo stesso con me quando mi sono laureata alla triennale, che Rosi Braidotti a Utrecht mi ha aperto la sua libreria dicendo “prendi quello che ti serve”. Sono stata fortunata e semplicemente voglio fare lo stesso. Qualcuno potrebbe obiettare che così i libri non si vendono, ma possiamo ridurre l’accademia a un luogo per vendere i libri dei docenti? Sarò un’idealista, ma per me attaccare un prezzo alle idee rimane un crimine, un furto al sapere come bene comune. Per concludere, direi che più che dottoranda sono una precaria della ricerca nell’Italia del Jobs-act e dell’obiezione di coscienza alla legge 194: la collocazione è importante, e la differenza sessuale in paesi malmessi come il nostro gioca un ruolo chiave soprattutto come dispositivo di eteronormazione. Come giovane precaria in età riproduttiva ho esperito in prima persona la mancanza di un adeguato accesso al progresso scientifico, così come al diritto alla salute: basti pensare ai tempi di prenotazione per una visita ginecologica al consultorio, dai tre ai nove mesi in una città come Bologna, quasi un anno in molte città del Sud. In paesi come il nostro troppi sono i limiti posti all’autodeterminazione. Penso appunto all’obiezione di coscienza dei medici che non garantiscono alle donne il diritto all’aborto, invalidando dall’interno la legge 194. Penso ai Centri Aiuto dei neofondamentalisti del Movimento per la Vita che sono riusciti a entrare nei consultori di troppe regioni, alla mancanza dell’educazione sessuale nelle scuole, alla conseguente assenza di una cultura della contraccezione e della salute sessuale adeguata ai tempi. Per questo, la mia ricerca è in Diritto e nuove tecnologie e verte proprio sul tema del controllo dei corpi e della vita, delle donne in primis. Spero sia una ricerca utile alle attiviste femministe, devo dire che spesso giro per collettivi a parlarne, dal momento che per fortuna molte si stanno impegnando per cambiare la legge 194. Al contempo, faccio molte lezioni sui diritti riproduttivi, sull’inizio vita, e riscontro una grande curiosità tra le/gli studentesse/i. Alla fine, è meraviglioso quando le due esperienze si ibridano, quando una studentessa diventa un’attivista perché al termine di un percorso di studi sente l’esigenza di “fare”. E ringrazio per quest’immagine un’amica, anche lei studiosa e attivista femminista, una giovane ricercatrice in storia delle donne, Alessia di Innocenzo, che un giorno mi ha detto: “Angela, ma dopo tutto quello che ho studiato, come faccio a rimanere con le mani in mano? Io ho voglia di cambiare la vita tutta!".

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