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Il sapere condiviso

Il sapere condiviso

Focus 4/Liber* di scegliere - I queerstudies nell’Università ridisegnano le modalità di trasmissione del sapere. Intervista a Angela Balzano

Marta Facchini Domenica, 01/02/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2015

 Angela Balzano è dottoranda in "Diritto e nuove tecnologie" presso l’Università degli studi di Bologna dove cura insieme a Raffaella Lamberti, e in collaborazione con la cattedra di Filosofia del diritto della Prof.ssa Faralli e l’Associazione di donne Orlando, il corso Etica e politica negli studi di genere. Eppure - lei stessa ammette - quella di dottoranda non è una definizione che la rappresenta in toto: “Mi vivo come una studiosa che mette a disposizione il suo desiderio di apprendere. Se imparo qualcosa è solo perché voglio farlo circolare in senso orizzontale”. Il sapere inteso come bene comune, la sua trasmissione attraverso pratiche nuove escludenti le gerarchie, è il portato dei queerstudies, che Angela incrocia nella sua esperienza di militante e ricercatrice. Con lei parliamo di queer nel tempio del sapere per antonomasia: l’Università.



Judith Butler pubblica “Questione di Genere” nel 1990 e Corpi che contano nel 1993. Entrambi i testi costituiscono un punto di riferimento per la queertheory, espressione questa coniata da Teresa de Lauretis nel 1990. Cosa ha rappresentato il pensiero butleriano nel contemporaneo dibattito teorico femminista?

“Questione di Genere” ha avuto un impatto non trascurabile sulla Teoria Femminista. Muovendo dall’attività intellettuale di Butler si è diffusa la nuova consapevolezza per cui il genere è una sorta di agire, un’incessante attività in svolgimento. Altro suo contributo molto ripreso in Italia è l’appello a ripensare le categorie di umano e di soggetto, appello che esclude i caratteri del postmodernismo. Butler scrive: “Il movimento trans e il movimento intersessuale a mio avviso non sono postfemministi. Entrambi, al contrario, trovano nel femminismo importanti risorse concettuali e politiche, e il femminismo rappresenta per loro una continua sfida, oltre che un alleato”.



Pensi che il queer possa contribuire a demolire le forme convenzionali della produzione del pensiero accademico e della sua trasmissione?

Questa è una bella domanda. Se per sapere accademico intendiamo quello italiano allora dovrei fare dei distinguo. Vi sono centri di ricerca virtuosi, dove i queerstudies sono considerati una ricchezza; penso a Verona, all’attività pioneristica portata avanti da Lorenzo Bernini e dalle/dai sue/suoi collaboratrici/ori. Penso anche ad alcune “docenti femministe” che si sono dimostrate molto disponibili ad accoglierli, come Federica Giardini e Anna Simone tra Roma e Napoli. Penso a Bologna e al ruolo che hanno i queerstudies per la rivista Studi Culturali e per il nostro corso in Etica e Politica. Insomma un fermento c’è. Nonostante la totale assenza di dipartimenti veri e propri di gender studies, cosa al contrario molto diffusa all’estero, non si può dire che i queerstudies non si siano diffusi a macchia d’olio anche da noi, anche se riconosco che abbiamo ancora molto da fare. I queerstudies sconvolgono l’impianto classico della trasmissione del sapere accademico, e questo incute un certo timore nel sapere istituzionale, per il quale la transdisciplinarietà e l’orizzontalità rappresentano un pericolo. Ironicamente, il loro timore è la nostra certezza di aver colto nel segno: i queerstudies tentano con ogni mezzo di destabilizzare l’accademia, se non lo facessero l’accademia li neutralizzerebbe. Un esempio notevole di questo tentativo di destabilizzazione è l’opera di Rachele Borghi a Parigi, il cui lavoro dimostra come sia possibile per i queerstudies stare dentro l’accademia rimanendo contro la neutralizzazione dei corpi e la privatizzazione dei saperi.



 Hai partecipato all’edizione 2014 della Primavera Queer, momento di discussione e formazione sulla teoria queer, organizzata a Chieti da un gruppo di student* dell’Università d’Annunzio e dei collettivi Laboratorio Le Antigoni e La Mala Educacion. Come si interseca la tua esperienza di dottoranda con i movimenti creativi che ridisegnano le identità di genere attraverso esperienze empiriche?

Della Primavera Queer conservo uno splendido ricordo. Gli/le studenti e studentesse hanno avuto una grande intuizione e sono stati davvero brave/i nell’organizzazione. La formazione è un terreno essenziale per il cambiamento sociale, ma se formazione significa ripetere ogni anno la stessa solfa a un gruppo di studenti in un’aula universitaria, non mi interessa. Ho solo trent’anni e sono toccate anche a me le classiche lezioni frontali: il circolo dell’auto-referenzialità. Pensavo che se avessi voluto insegnare filosofia politica, non lo avrei mai fatto così. Ho sempre cercato altri tipi di formazione e nella mia esperienza i collettivi universitari sono stati importanti quanto quelli femministi. Ho seguito la triennale a Napoli, dove tenevamo corsi autogestiti con la rete Uniriot; invitavamo i docenti ma chiedevamo sempre loro di attenersi, nel preparare le lezioni, alle domande che inviavamo loro prima. Studiavamo insieme e ognuna/o di noi, a turno, preparava relazioni introduttive per ogni lezione. Trasferita a Bologna per la magistrale, ho cercato i collettivi universitari per continuare in questa direzione e ho incontrato persone stupende. Ho attraversato l’esperienza dell’Onda, partecipato a collettivi femministi. Poi sono approdata al Centro delle donne e alla Biblioteca Italiana delle donne. In tutte queste occasioni, ho capito che la produzione e la trasmissione dei saperi o sono comuni o, semplicemente, non sono. Per questo bisogna osare, cercare nuove forme espressive che prevedano lo scambio di conoscenze in direzioni molteplici.

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