Albania - Fanno voto di verginità e decidono di vivere come uomini. Sono donne costrette a negare la loro identità da un’usanza antica e che non muore
Cristina Carpinelli Domenica, 20/10/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2013
Chi sono le “vergini giurate”? (“burnesha” o “virgjinesha” in albanese)? Sono donne albanesi che al sopraggiungere della maturità sessuale decidono di vivere come uomini. Una decisione legata più all’identità sociale che alla sessualità. Fanno voto di verginità con un giuramento pubblico e ottengono, quindi, il permesso di vivere come uomini. Per questo, si attribuiscono un nome maschile, si vestono con abiti maschili, hanno capelli corti, possiedono un’arma, fumano e bevono alcol, svolgono lavori maschili e, in alcuni casi, ricoprono il ruolo di capofamiglia. Tutte cose proibite alla donna che soprattutto un tempo per tradizione aveva ridotte capacità decisionali, non aveva diritti sui beni della famiglia e sui figli, ed era esclusa dalle faide del clan.
L’origine del fenomeno delle “vergini giurate”, prevalentemente diffuso nelle zone montuose del nord dell’Albania e in Kosovo, ma anche in altre aree dei Balcani occidentali (Serbia, Montenegro e Bosnia), risale al XV secolo, e nasce come reazione alle regole imposte da un antico codice consuetudinario, il “Kanun” (Canone). Questo aveva codificato un sistema familiare di tipo “patrilineare” (la trasmissione della ricchezza e dell’autorità seguiva la linea maschile) e “patrilocale” (la donna, quando si sposava, si doveva trasferire nel villaggio del marito). La famiglia era basata anche sul clan, e i matrimoni erano spesso uno strumento per stabilire alleanze tra i vari clan.
Le famiglie senza presenze maschili erano considerate come dei paria. Di conseguenza, alcune donne si trovavano, per necessità, ad assumere il ruolo sociale di uomini. Quando in una famiglia nascevano, ad esempio, solo femmine, una di queste assumeva un’identità maschile (diventava, cioè, una “vergine giurata”). Questo le consentiva di prendere decisioni al posto del padre anziano o assente, di avere voce in capitolo sulle proprietà della famiglia, sui membri della famiglia e di decidere sui matrimoni - quasi sempre combinati - delle sorelle. Capitava anche che i figli di una famiglia, di solito numerosa, perdessero entrambi i genitori o il padre. In questo caso, una delle figlie più grandi diventava una “burnesh”, assumendo così la patria potestà sui propri fratellini e sorelline. Esemplare è la storia di Giergia Biba (1894-1944) fucilata dai tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale. Nata in una famiglia di 7 figli (6 femmine e 1 maschio), questi rimasero orfani molto presto. Gergia si prese allora cura della famiglia, insieme con il fratello. Purtroppo, anche il fratello, che anni dopo si era sposato ed era diventato padre, morì prematuramente, lasciando orfani i suoi figli. Fu allora che Giergia decise di diventare Giergi, per sostituire il fratello nel ruolo di capofamiglia.
Le donne diventavano “vergini giurate” per diverse ragioni. Per “libera scelta”, quando volevano raggirare le privazioni e i soprusi dovuti al fatto di essere donna, celare il proprio lesbismo, poter vivere sole, o per “necessità”, vale a dire per sfuggire ad un matrimonio combinato, nel caso in cui malattie o faide avessero decimato tutti gli uomini della famiglia, in assenza nel nucleo familiare di figli maschi. In quest’ultimo caso, spesso il padre spingeva una delle figlie a farsi uomo. Qamile Stema, tuttora vivente (87 anni), spiega perché si era convertita in una “burnesh”: “Ero una normalissima ragazza, ma sono diventata uomo solo per far felice mio padre” racconta. “Lui aspettava il maschio, ma sono nata io, la nona di già otto femmine. Non avevo scelta”.
La conversione di una donna in un uomo soddisfaceva, innanzitutto, la necessità socio-economica di avere in famiglia la presenza di almeno un maschio, l’unico che poteva godere di quei diritti che non erano trasmessi “in linea femminile” (linja e tamblit). Farsi “vergine giurata” era anche un modo per evitare la vendetta: se una ragazza di un clan rifiutava il fidanzato di un altro clan che le era stato destinato, l’orgoglio ferito dell’uomo rifiutato era causa di vendetta tra i due clan. Se, invece, la donna faceva voto di castità e rinunciava alla propria femminilità, l’obbligo di vendetta veniva annullato.
Come è stato detto, l’assunzione del ruolo sociale di uomo era condizionato dal giuramento di “castità totale” (la rinuncia al matrimonio, ai figli, al sesso), espresso davanti ai 12 uomini più influenti del clan di appartenenza. Per le donne che venivano meno al giuramento era prevista l’uccisione, persino attraverso il rogo. Questa regola era codificata dal Kanun, che riconosceva il diritto alla donna di proclamarsi uomo, di comportarsi come uomo e di acquisire tutti i diritti riservati esclusivamente agli uomini, soltanto nel caso in cui questa avesse rinunciato per sempre alla propria sessualità e femminilità.
Dal momento del giuramento, la “burnesh” (dall’albanese burré=uomo) acquisiva tutti i diritti che il “Kanun” attribuiva agli uomini: diventava il patriarca della famiglia, mangiava con gli uomini nella stanza dove alle donne era proibito restare, acquisiva il diritto di vendere, comprare e gestire le proprietà familiari, poteva lavorare i campi e prendersi cura del bestiame, possedere il fucile, partecipare alla vendetta tra clan. Aveva, infine, diritto di voto nel consiglio dei saggi del villaggio.
Ancora oggi, nelle zone montagnose dell’Albania settentrionale, si possono incontrare alcune “burnesha”. Secoli d’isolamento, per via delle zone impervie dei territori, hanno permesso che quest’usanza tribale, arcaica, persistesse sino ai giorni nostri. Un fenomeno sociale che si sta, tuttavia, progressivamente estinguendo. Le “Virgjinesha” sono, infatti, ora, circa un centinaio, e sono quasi tutte anziane.
Si è cominciato a conoscere nel mondo quest’antico fenomeno, grazie alla scrittrice albanese Elvira Dones, che aveva realizzato un documentario con protagoniste sei donne anziane convertitesi in uomini. La scrittrice albanese aveva scoperto casualmente l’esistenza di queste donne, attraverso la foto di una famiglia kosovara dove spiccava un uomo dal volto decisamente femminile. Dones avviò, dunque, le sue ricerche scoprendo storie che l’avrebbero colpita profondamente. Nel 2007 scrisse il romanzo “Hana” (pubblicato in Italia con il titolo “Vergine giurata”, ed. Feltrinelli, 2007), la cui protagonista era una donna fattasi uomo per sfuggire ad un matrimonio combinato, scappata poi negli Stati Uniti per recuperare la propria identità femminile. Nel 1999 l’antropologa Antonia Young aveva trattato ampiamente il fenomeno nel suo libro “Women who become men”. Delle “vergini giurate” aveva già scritto nei primi del ‘900 anche Edith Durham, una viaggiatrice e scrittrice inglese nota per i suoi appunti antropologici di vita in Albania nei primi anni venti del Secolo scorso.
Per l’antropologo albanese Moikom Zeqo, il fenomeno delle “vergini giurate”, che include sia donne cristiane sia musulmane, si aggiungeva ad una serie di altri fenomeni come quello, ad esempio, del “Kuvada” (il rito secondo cui l’uomo imita la moglie che ha appena partorito il figlio, fingendosi donna, manifestando i sintomi della puerpera, accogliendo gli ospiti sdraiato nel letto vestito da donna) proveniente da antiche culture pre-indoeuropee. Diffuso in Sud America e in Nuova Guinea, questo fenomeno era di solito associato a strutture familiari matriarcali o matrilineari in evoluzione verso il patriarcato. Con il rito del Kuvada, gli uomini si sarebbero appropriati del potere in mano alle donne per motivi religiosi (culto di divinità femminili e religioni telluriche).
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