Viaggi svelati - "La vita del deserto con le sue asprezze e i rituali, l’Islam pacificatore e moderato della tolleranza e dell’accoglienza segnano il loro quotidiano"
Marzia Beltrami Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2006
Anche quest’anno arriva Ramadan: iniziando 10 giorni prima dell’anno scorso, il mese del digiuno si avvicina pericolosamente a coincidere con l’estate – un Ramadan sempre più caldo e con giornate sempre più lunghe in cui la rottura del digiuno non sembra arrivare mai. Il ritmo della vita rallenta, la giornata lavorativa è più corta, durante le ore di luce non è permesso – per legge – mangiare, bere e fumare in pubblico, se non in aree designate (e si rischia di passare la giornata in gattabuia – a digiunare! - se si viene sorpresi a farlo). Di fatto I ristoranti sono chiusi di giorno e riaprono al tramonto e diventa difficile trovare qualcosa da mettere sotto ai denti. Per tutto il mese, l’attenzione è rivolta al sacrificio, alla penitenza, alla preghiera e alla solidarietà, le persone vestono modestamente, cercano di essere più gentili e disponibili – ogni sera poi, dopo una folle e affannata corsa in macchina nel peggior traffico del mondo, ci si ritrova con parenti e amici a rompere il digiuno. Quasi come fosse Natale tutti i giorni, per un mese, ogni sera si festeggia in famiglia la benedizione del ‘pane quotidiano’. Nei minuti che precedono il calare del sole nel Golfo Persico, l’aria si fa calma, le strade si svuotano, gli Imam di tutte le moschee chiamano i fedeli alla preghiera e scende una pace irreale. La mia tradizione è che ogni anno durante Ramadan passo una giornata a casa di Maitha, una ragazza Emarati, la cui famiglia ad Al Ain mi ha ‘adottato’. Maitha, così come le sue 5 sorelle e 4 fratelli, è una Sheikha – suo nonno combatté a fianco dei Britannici contro gli Omaniti all’inizio del ‘900 e si guadagnò il titolo di Sheikh, titolo che passa ancora oggi a tutti i suoi (tanti) discendenti. Essere Sheikh vuol dire tante cose in questa società – ma durante il Ramadan, questo titolo significa il dovere di servire la comunità dei poveri e disagiati. Innanzitutto il palazzo di famiglia, o meglio, la residenza delle donne, durante il Ramadan rimane aperto. Letteralmente la porta è aperta e chiunque, purché di sesso femminile, può entrare a recare omaggio alle Sheikhe, le quali con pazienza passano le giornate ad accogliere le visitatrici e le loro richieste – di denaro, di favori, di aiuto, di lavoro. La Sheikha madre, Sheikha Maryam, osserva tutto da sotto il suo burqa dorato. La voce stridula di chi non ha più molti denti, accoglie tutte le ospiti con le forme rituali dell’ospitalità beduina – una complicata danza verbale di benvenuto in cui ci si bacia sulla guancia ripetutamente e ci si informa più volte dell’altrui salute, prima di essere invitati a sedersi sul divano (quando lei entra nella stanza, ci si alza sempre rigorosamente in piedi e si attente che lei ci presti attenzione, il che dipende in parte dal rango sociale di appartenenza). Nel frattempo attorno alle cucine tutti si danno un gran da fare. Per camuffarmi, mi sono vestita come Maitha, con la kandoura e un’abaya, l’abito lungo nero, un velo attorno al collo, pronto per essere posizionato sulla testa nel caso un uomo della famiglia arrivi nelle cucine. Questa volta ho portato anche io il mio piccolo contributo alla cena: tagliatelle al pesto siciliano! Le cucine non sono propriamente come immaginiamo noi… la maggior parte del cibo è preparata all’aperto sotto una tettoia di alluminio. Enormi bombole di gas fanno funzionare fornelli poggiati in terra. Al lavoro ci sono tre cuochi e almeno quattro o cinque ragazze del personale di servizio. Le sorelle di Maitha, Aysha e Fatima (quelle più anziane) aiutano e coordinano il tutto. Il cibo preparato qui sarà diviso in quattro parti, una per le donne della casa, una, su preziosi vassoi di metallo, per gli uomini della casa e i loro ospiti, che li consumeranno nella loro majlis (in cui io, in quanto donna, non posso mettere piede). La maggior parte del cibo viene però distribuita alle decine di persone, per lo più poveri lavoratori afghani e pakistani, che tutti i pomeriggi si ammassano ai cancelli della tenuta. Infine una parte del cibo viene data alle donne indigenti che lo richiedono: alcune di loro stanno in cucina, con i loro contenitori vuoti, ad aspettare che il cibo sia pronto, un’aria referente e sussiegosa. Queste donne, vecchie conoscenze della famiglia di Maitha, non sono Emarate, ma vengono da Buraimi, la parte omanita e più povera di Al Ain. Una di loro è anziana, sorda, muta da sempre e adesso anche po' cieca, ma ogni anno durante il Ramadan tutti i giorni a prendere da mangiare. Comunica a gesti e si vede che è famigliare con Aysha, che fra l'altro sembra essere l'unica che la capisce.
Sul menù stasera abbiamo biriani di cammello (riso indiano speziato con carne di cammello, in un pentolone enorme), pakora e falafel, insalate varie e infine una ricetta tradizionale in cui il pane fatto in casa, non lievitato e secco, viene spezzettato prima di essere ricoperto da brodo di verdure e spezzatino di capra. La cosa più interessante è la preparazione dell’harees, cucinato in modo tradizionale. Un pentolone del diametro di un metro viene sepolto sotto terra, sopra braci ardenti. Dentro cuoce carne di manzo, avena in fiocchi e acqua per ore e ore e ore, fino a quando la carne perde consistenza e uno dei cuochi ci passa dentro un mixer ad immersione delle dimensioni di una sega elettrica. Il risultato è una pappa collosa dal sapore di carne. Stasera di questi pentoloni in cucina ce ne sono tre.
Si avvicina l’ora di Iftar, la rottura del digiuno e le donne di casa si lavano, si cambiano gli abiti che odorano di cucina e si preparano a mangiare. Sheikha Maryam indossa ora un abito tradizionale di seta finissima e ricamato ai polsi e al collo. La tovaglia di plastica è stesa sulla moquette del salone e i piatti sono pronti ed è un momento eccitante, in cui si attende il risuonare della Moschea. Finalmente si può rompere il digiuno. Che buono il cibo, che gratitudine, che sollievo regna nella sala! Acqua, un dattero o due, un po’ di laban, latte salato, una veloce preghiera e poi finalmente la cena e le chiacchiere rilassate. Assieme agli altri piatti, ci sono anche le mie tagliatelle al pesto siciliano, mi fanno dire il nome della ricetta e ridacchiano provando a ripeterlo. Shaikha Maryam mi chiede per l’ennesima volta se sono incinta, non prenderai mica le pillole, eh?, mi dice, mentre io muoio di imbarazzo e lei mi riempie il piatto nuovamente. Per fare onore al loro ospitalità, faccio uno strappo alla mia dieta vegetariana...assaggio un pezzettino di cammello e una punta di cucchiaio di harees...il cammello non è male, almeno non sa molto di carne...ma l'harees proprio non riesco a mandarlo giù. Iftar non dura tanto e appena finito le ragazze si rimettono in moto. La faticaccia in cucina non è finita: alle dieci viene servito un altro pasto e altro cibo per i questuanti fuori casa. Torno nelle cucine e Aysha è di nuovo al lavoro a preparare un dolce, che - ovviamente - devo assaggiare. Sono pronta ormai per tornare a casa e Richard è fuori al cancello che aspetta in macchina, ma non mi fanno andare prima di avermi spruzzato addosso del profumo, un ultimo gesto di ospitalità. Ogni volta che assisto a questa quotidianità, lascio la casa di Maitha carica di pace, ottimismo, affetto, umiltà. Mi chiedo quanti dei nostri potenti e regnanti passerebbero un mese intero a cucinare per i poveri della città, quanti lasciano la porta aperta per lasciar entrare chi ha bisogno; malgrado i gioielli preziosi, le macchine e il lusso. Queste donne ricordano chi sono e da dove vengono, senza fronzoli e storie. La vita del deserto con le sue asprezze e i rituali, l’Islam pacificatore e moderato della tolleranza e dell’accoglienza segnano il loro quotidiano.
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