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Il protagonismo delle donne curde

Il protagonismo delle donne curde

Kurdistan, stato senza confini - Dilar Dirik e Ala Ali, entrambe curde ma di origini diverse per storia politica ed età anagrafica, raccontano il ruolo centrale delle donne curde nelle zone più calde e martoriate del Medio Oriente

Silvia Vaccaro Lunedi, 16/05/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2016

Da quando cinque anni fa è scoppiata la guerra in Siria, le pagine dei giornali occidentali si sono riempite dei volti fieri delle combattenti curde. Lo stupore iniziale dei giornalisti e del pubblico per queste giovanissime in mimetica e scarpe da ginnastica si è trasformato talvolta in curiosità eccessiva, in un sentimento lontano da una profonda consapevolezza dell’orrore della guerra. D’altro canto, però, è anche grazie all’interesse nato attorno a loro se la causa curda, ignorata per decenni, adesso è conosciuta in tutto il mondo. A partire dal 1923, quando il Kurdistan fu diviso a tavolino e i suoi pezzi furono inglobati all’interno di Turchia, Siria, Iraq e Iran, i curdi hanno subito ovunque deportazioni, intimidazioni, violenze e mutilazioni culturali. Da quel momento infatti si affermò con forza l’ideologia degli stati nazionali a base etnica, che riteneva le minoranze un pericolo. I curdi persero diritti, lavoro, proprietà, e i Governi vararono politiche di assimilazione violenta, pulizia etnica e trasferimenti coatti.

“Noi vogliamo vivere in autonomia e insieme alle altre minoranze. Non vogliamo uno stato etnico. Vogliamo continuare a vivere come abbiamo sempre fatto insieme a cristiani, turcomanni, aziri, armeni, ebrei. La nostra è una terra per tutti. È questo che dà fastidio”, aveva dichiarato sulle pagine di questa rivista ormai un anno fa Nilufer Koc, co-presidente del KNK, il Congresso Nazionale Kurdo, organismo che raggruppa tutti i partiti curdi nei quattro Stati.

Invece di migliorare però, a causa della guerra, in questi ultimi cinque anni la vita dei curdi è peggiorata. È proprio il KNK a denunciare gli omicidi che avvengono quasi quotidianamente in Turchia nelle città di Cizre, Diyarbakır, Silopi e Nusaybin. Dall’agosto 2015 si contano più di 700 morti tra i civili, nel silenzio quasi totale della stampa internazionale e nel disinteresse dei governi europei che, incuranti di questi massacri, hanno siglato un’intesa con il governo turco per il controllo dei flussi migratori lo scorso 18 marzo, un accordo giudicato da Amnesty International “un colpo di proporzioni storiche ai diritti umani”.



Non va meglio in Siria dove, in continuità con le violenze inflitte al popolo curdo da Assad, avvengono ogni giorno omicidi e stupri etnici, perpetrati sia dai miliziani di Daesh che dall’esercito di liberazione siriano, 30mila solo nel biennio tra il 2009 e il 2011, come denunciava la parlamentare Mulkiye Birtane intervistata da Emanuela Irace (NOIDONNE, agosto 2013).

Anche la storia dei curdo-iracheni è stata segnata da violenze di ogni sorta soprattutto fino alla caduta del regime di Saddam Hussein, acerrimo nemico del popolo curdo e fautore di massacri passati alla storia come l’attacco chimico di Halabja in cui morirono oltre cinquemila curdi. Oggi però la situazione appare diversa nel Kurdistan iracheno, che ha esteso nel 2003 i suoi confini anche a Sud. Tre sono le regioni riconosciute dal governo centrale, Sulaymaniyya, la capitale Erbile Dahuk, mentre altri territori sono ancora oggetto di dispute tra curdi e arabi. Proprio nel Kurdistan iracheno oggi, a causa della guerra, vivono circa 250mila curdo-siriani negli enormi campi profughi delle città di Arbat, Erbil, Kalar, Kirkuk, tra le altre. Questo rapporto particolare tra curdi di origini diverse è stato raccontato nel documentario indipendente “Due paesi un esilio” realizzato dal cooperante italiano Federico Dessì e dal videomaker francese Justin de Gonzague, e fa parte del progetto Focus on Syria (www.focusonsyria.org).

Tanti, inoltre, sono i rifugiati curdo-siriani che lavorano nei cantieri per la costruzione di grattacieli e grandi opere. Una realtà, quella del Kurdistan iracheno, che dal punto di vista socio-economico somiglia molto di più al modello occidentale che al confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Öcalan, leader curdo che nel 1978 ha fondato il PKK, Partito dei lavoratori del Kurdistan, e che dal 1999 è detenuto in isolamento nell’isola turca di İmralı. Sue le idee che ispirano le coraggiose combattenti delle YPJ, l’ala femminile dello YPG, letteralmente ‘Unità per la protezione della popolazione’, la cui vita e visione politica è raccontata nel film ‘Her War: Women vs. ISIS’. Si deve a queste combattenti la liberazione di Kobane nel gennaio del 2015 ed è proprio nella regione del Rojava che è divenuta realtà un’idea di comunità e di democrazia dal basso in cui la parità di genere in ogni ambito della sfera pubblica e privata costituisce la base su cui creare prosperità, pace e libertà per tutti e tutte. Sebbene il fine ultimo sia una società pacifica, le combattenti in Rojava rivendicano il loro ruolo come donne guerrigliere, anche perché è difficile rifiutare l’idea di combattere quando le armi del nemico sono a pochi metri da te e imbracciarle a tua volta è l’unica possibilità di salvezza.

La possibilità di intervistare due attiviste curde, Ala Ali e DilarDirik, ha aperto nuove prospettive di ragionamento e ha consentito una maggiore comprensione anche delle differenze che esistono tra loro nelle diverse zone. Alcune imbracciano il fucile, altre insegnano sotto le bombe, altre ancora assistono quelle che hanno subito traumi durante la guerra dentro e fuori i campi profughi. Altre conducono ricerche e fanno pressioni sui governi affinché si occupino anche della sorte di donne e bambini invece di considerare gli stupri e la tratta di esseri umani solo come danni collaterali del conflitto. Appare complicato, con una guerra ancora in corso e un clima di diffusa instabilità politica in vaste aree del Medio Oriente, pensare ai curdi come ad un unico popolo che aspira ancora alla riunificazione e a uno stato unitario. Diversa è la storia delle rivendicazioni curde nei quattro stati in cui vivono, diverse appaiono oggi le istanze e le soluzioni proposte. Sia Dilar che Ala sono però convinte che è impossibile costruire alternative di libertà e pace se le donne non stanno al centro dei processi di autodeterminazione e di cambiamento, se non vengono considerate attrici cruciali per porre fine alla guerra e allo strapotere maschile ancora forte in molte società medio orientali, e non solo là. Servono le donne anche per abbattere il muro più resistente, quello del patriarcato, che sta ancora in piedi nonostante le bombe e i proiettili.



Interviste e testo di Silvia Vaccaro 

Foto e ricerca immagini e dati di Delia Merola

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IL POPOLO DEI CURDI

I curdi, stimati tra i 25 e 35 milioni, sono il quarto gruppo etnico più numeroso del Medio Oriente. La loro storia si colloca geograficamente a cavallo di quattro stati a seguito dei confini tracciati dalle potenze occidentali nel 1923 con il trattato di Losanna. In Turchia rappresentano circa il 16 per cento sul totale della popolazione, in Siria il 9 per cento, in Iraq il 17 per cento e in Iran il 10 per cento.

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AMARGI, OVVERO ‘LIBERTA’

Questo simbolo è la rappresentazione del termine amargi o amagi, la prima parola conosciuta di un linguaggio umano per indicare la “libertà”. Si tratta di un termine sumero e letteralmente significa “ritorno alla madre” dal momento che era proprio questo che si concedeva ai “forzati del debito”, ovvero quelli a cui venivano estinti i debiti e che tornavano in possesso della terra. A questi individui veniva permesso di fare ritorno alle loro famiglie e da qui il significato letterale del termine. Di questo vocabolo ne scrive David Graeber nel libro “Debito, i primi 5.000 anni”, ma dobbiamo a Dilar Dirik la scoperta di questo termine.



LE DONNE DEVONO PARTECIPARE ALLA COSTRUZIONE DELLA PACE

Intervista ad Ala Ali


Della delegazione irachena invitata dall’ong “Un ponte per” giunta a Roma a marzo faceva parte anche Ala Ali, ricercatrice curda irachena, esperta in analisi del conflitto, strategie di peacebuilding e democratizzazione con focus di genere. Durante l’incontro avvenuto presso la Casa Internazionale delle donne, le sue prime parole sono state contro la guerra che lei conosce da quando era bambina. In Iraq solo dal 2003 a oggi si contano 500mila morti tra i civili. Un numero talmente enorme che da solo dovrebbe servire da deterrente per nuovi interventi militari. “Non è con gli eserciti e le bombe che si ferma Daesh ma con un lavoro politico e istituzionale basato sulle proposte della popolazione irachena, capace, dopo anni di guerra, di formulare le strategie più efficaci affinché il conflitto si risolva”. Oggi molte donne sono coinvolte nel processo di pace. Oltre ottanta organizzazioni, formate da attiviste ma anche da tante donne normali, hanno sensibilizzato l’opinione pubblica internazionale sulle condizioni che le donne vivono nel Kurdistan iracheno e nei tanti campi profughi. Solo in Iraq si contano, secondo le Nazioni Unite, oltre tre milioni e mezzo di rifugiati. Di questi circa 900mila (sebbene altre stime parlino di oltre un milione e mezzo) vivono nel Kurdistan iracheno e oltre un quarto di loro è siriano. Grazie al lavoro di queste organizzazioni l’Iraq è stato il primo paese a recepire la raccomandazione 1325 dell’ONU che riconosce il ruolo fondamentale delle donne nella costruzione dei processi di pace”. Ala ha curato importanti analisi e report e si è occupata moltissimo di raccontare la resistenza delle donne all’estremismo. Una pratica quotidiana come quella che ha portato una irachena di religione sunnita a proteggere quattro soldati sciiti spacciandoli come mariti delle sue figlie. Con loro, Um Khalid, questo il nome della donna, ha attraversato sette check-point dell’ISIS riuscendo a farli uscire dall’Iraq ed evitando che venissero scoperti, fatti prigionieri e uccisi. Quando i miliziani di Daesh hanno saputo cosa aveva fatto, per punirla hanno ucciso il suo unico figlio maschio. “Sono tante le storie di coraggio al femminile - commenta Ala -, tantissime donne e bambine sono state violentate e hanno subito traumi ma non ricevono alcuna assistenza. In questo caso non basta nemmeno l’aiuto esterno, servono operatrici in grado di parlare la lingua delle donne che vivono nei campi. È necessario quindi che le stesse donne irachene vengano istruite e possano occuparsi di assistere le altre”.



Per cosa combattono le donne irachene?

Si battono per i loro diritti, per l’uguaglianza, la giustizia e la pace. Vorrebbero non essere più discriminate, vivere in pace, smettere di avere paura e di sentirsi in pericolo. Vogliono uscire la sera e sentirsi al sicuro, sia fuori che dentro le loro case.



Cosa possono fare la comunità internazionale e le femministe occidentali per aiutare le donne che vivono nel Kurdistan iracheno?

È importante che l’attenzione si focalizzi sulla reale situazione delle irachene e curdo-irachene. Servirebbe una campagna internazionale in grado di spiegare come veramente vivono le donne nei campi profughi e altrove, quanta sofferenza è presente nella loro vita quotidiana.



Cosa pensa delle donne curde di Kobane che imbracciano il fucile?

Provo per loro sentimenti contrastanti. Sono emotivamente toccata dal loro coraggio. Al tempo stesso però sono fortemente contro la guerra e credo che le attività militari non portino alla pace. Vivo un conflitto dentro di me perché da un lato sono orgogliosa di loro, dall’altro ne ho compassione. Mi piacerebbe che avessero una vita normale come tutte le ragazze di diciassette, diciotto anni, che ricevessero un’istruzione e che si potessero costruire un futuro. Quindi non vorrei che venissero incoraggiate a combattere, ma aiutate ad avere una vita normale.



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NON SOLO RESISTENZA. IN ROJAVA È IN CORSO UNA VERA RIVOLUZIONE SOCIALE

Intervista a Dilar Dirik


Del modello del confederalismo democratico ha parlato Dilar Dirik, giovane ricercatrice curda cresciuta in Germania. Attualmente vive a Cambridge, dove sta svolgendo un dottorato in sociologia in cui esamina il ruolo delle lotte e dei movimenti delle donne nella costruzione di una società curda libera. Dilar ha soggiornato alcuni giorni in Italia ed ha tenuto delle conferenze all’Università Sapienza e presso la casa delle donne Lucha y Siesta di Roma. Riportiamo un estratto dell’intervista (versione integrale in: http://www.noidonne.org/blog.php?ID=07069).



Qual è il peggior nemico delle donne curde e dei curdi in generale?

Direi che è il sistema formato da patriarcato, capitalismo e lo Stato Nazione. Non posso dire se è uno Stato oppure di un gruppo, poiché un gruppo etnico non può mai essere tuo nemico. Le persone diventano nemiche le une delle altre quando vivono in un sistema basato sul razzismo, sul colonialismo e sul capitalismo. Aggiungerei inoltre che questo sistema è nemico anche di tutte le persone marginalizzate come le persone LGBTQ e quelle povere, le minoranze religiose, etniche, linguistiche e cosi via. È un nemico comune per tutte le persone del mondo ad esclusione di piccole élites.



Perché il Rojava è da considerarsi un luogo così diverso dal resto del mondo?

Prima di tutto dobbiamo capire contro chi lottano le donne curde. Lottano contro Daesh, un sistema stupratore che usa la violenza sessuale contro le donne come principale strumento di propaganda e il cui scopo è soprattutto quello di distruggere le donne, il loro ruolo, la loro identità, il loro potere. Daesh è un nemico esplicitamente, apertamente, orgogliosamente patriarcale. Ma Daesh prima di tutto è una mentalità. I terroristi non sono diventati così potenti perché in possesso di un grande armamentario, ma attraverso l’ideologia e bombardarli non li eliminerà. Quello che sta avvenendo in Rojava non è solamente una lotta armata bensì un'articolata rivoluzione sociale. Non si tratta di una reazione ma di un progetto politico basato sull'idea del confederalismo democratico, il che significa che tutte le persone che vivono in quell’area, siano curdi, arabi, turchi, armeni, siriani, cristiani, collaborano insieme per creare una società basata sulla democrazia radicale, sulla messa in comune dei beni, sulla liberazione della donna e sull'ecologia. Ovviamente suona come molto idealistico, ma questo è quello che si sta cercando di realizzare concretamente al fine di mobilitare le persone verso una coscienza politica soggettiva che possa portare a decidere per sé. Quello che rende Rojava unica è che la liberazione delle donne non viene considerata un problema secondario, qualcosa da attuare dopo la fine del conflitto, bensì è un tema considerato nella sua immediatezza.



Cosa possiamo fare noi, come comunità internazionale?

Aiutare le persone a Rojava o in Kurdistan significa sfidare il sistema in cui viviamo. Nel caso dell’Italia si deve fare pressione sul Governo circa la sua posizione nelle guerre in Medio Oriente o in Africa, o rispetto ai soldi che vengono dati alla Turchia per fermare i rifugiati che attraversano il Mediterraneo. Aggiungo che occorre rompere questo embargo dell’informazione su quello che accade in Turchia ai curdi. C’è totale silenzio rispetto a quello che avviene in alcune città contro i civili. Questo blocco dei media è legato al ruolo importante che la Turchia ha per i paesi dell’Unione Europea. Capire le connessioni tra guerre, rifugiati e ruolo della politica è importante per riuscire ad essere solidali con le persone e a influenzare i media e dare voce a chi non ce l’ha. Non si tratta solo di problemi di questo o quel popolo, ma riguarda anche quello che avete da dire voi come cittadini italiani rispetto alla vostra situazione politica. Significa essere cittadini attivi e avere consapevolezza di quello che accade in Europa e fuori dai suoi confini.

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