Pubblicità/3 - Intervista a un pubblicitario su tempi, costumi, consumi, corpi delle donne …e degli uomini
Angelucci Nadia Giovedi, 24/06/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2010
Lorenzo Guarnera è direttore creativo, titolare dell’omonima agenzia fondata nel 2008, e svolge da sempre la sua attività nella sua città natale, Catania. E’ socio della TP – Associazione Italiana Pubblicitari Professionisti - dal 1994. Nel 2009 una campagna curata dalla sua agenzia ha ricevuto dallo IAP – Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria - un’ingiunzione a bloccare la propaganda commerciale in quanto il messaggio avrebbe trasferito sulla donna l’appetibilità dell’alimento.
Siamo andati a sentire la sua opinione in materia di pubblicità e corpi delle donne per capire il punto di vista di chi si confronta con le richieste del mercato, i consumi e le norme deontologiche.
La pubblicità registra i gusti della società e li utilizza oppure crea e orienta i gusti?
L’uno e l’altro. Mutano i tempi, i gusti, i costumi. Solitamente la pubblicità commerciale, quella legata ai brand, è capace di cogliere in anticipo tendenze e orientamenti di costume amplificandoli. Ma non credo, in genere, che la pubblicità commerciale sia in grado di modificare i gusti nel breve periodo, piuttosto la credo capacissima di ingigantirli e contribuire a farli diventare una “moda”. In ambito sociale, invece, il ruolo delle “pubblicità solidale” o della comunicazione pubblica può considerarsi sostanziale nel sensibilizzare ed orientare i cittadini a comportamenti sani e corretti. Ma non credo affatto che riesca ad esercitare un potere. In questo ambito riesce a fare molto di più l’informazione, basti pensare alle conseguenze nell’opinione pubblica a causa di una notizia non data o di una cronaca deformata!
Può esistere un'etica della pubblicità?
È una questione di valori, di responsabilità sociale oltre che deontologica. Come ogni professione anche quella del pubblicitario è regolata da precisi obblighi etici. Chi opera con onestà intellettuale si attiene con scrupolo al regolamento imposto dallo IAP, e ha l’obbligo di riconoscerlo e di farlo rispettare ai propri clienti. La TP, la più antica associazione italiana che raggruppa i professionisti della pubblicità, cui appartengo, è da sempre fortemente attiva anche in questa direzione.
I pubblicitari non sentono di avere anche delle responsabilità nell'uso volgare del corpo della donna?
Non vorrei sembrare “bacchettone”. Se parliamo della “volgarità” ogni pubblicitario che la adopera dovrebbe sentirsi eticamente responsabile nei confronti sia della società sia del cliente al quale ha venduto la sua “volgare” consulenza. Per me l’utilizzo improprio del corpo, sia femminile sia maschile sia infantile, è la rivelazione dell’incapacità del pubblicitario a trovare argomenti sostenibili e soluzioni creative in grado di impattare ed essere convincenti con gusto e originalità. È una debolezza.
Mettere in mostra 'pezzi' di corpi di una donna fa vendere di più? O attira l'attenzione?
Una ricerca di mercato, condotta negli anni ’90 su un pubblico femminile, rivelò che le acquirenti in generale erano piacevolmente attratte dalla bellezza femminile, e che acquistavano molto più volentieri un prodotto pubblicizzato attraverso la testimonianza di un personaggio femminile famoso a confronto con uno maschile. Oggi è ancora così.
Esiste una pubblicità 'politically correct'? I riscontri di vendita sono gli stessi?
Si può essere corretti e vendere molto più degli altri. L’innovazione vince sempre. Un’azzeccata politica di marketing, unita ad una buona strategia creativa, raggiunge sempre il successo auspicato. Le performance nei test post-campagna parlano chiaro. La creatività paga. Spesso in mancanza di idee innovative, certe aziende banalmente seguono strade già tracciate dai grossi competitor e si trovano, così, “costretti” a rimediare attraverso campagne shock o l’uso di pubblicità trasgressive o volgari. Un capitolo a parte, invece, è la pubblicità delle griffe di moda, le quali cercano proprio nella trasgressione visiva il senso della loro filosofia di marca.
Le delibere che impediscono l'uso del corpo femminile nelle pubblicità potrebbero essere lette come una forma di censura o di limitazione della libertà creativa?
Le delibere che inibiscono l’uso della “figura femminile accostata ad un prodotto” rappresentano una gravissima limitazione al linguaggio visivo nella creatività. Inoltre, devo registrare una discriminazione, una sorta di “disparità sessuale al contrario”. Stranamente, le delibere non parlano di abuso nell’uso del corpo maschile. Come dire che il maschio può essere accostato liberamente a un prodotto, la donna no. “Mastrolindo” è ammesso, “Donnalinda" no! Pensi, ad esempio, che a marzo 2009 un mio cliente, appena ricevuta una comunicazione da parte dello IAP in cui ingiungeva a desistere dall’utilizzo della nostra campagna in corso, per non incorrere a beghe legali e amministrative, e nel dubbio che tutto ciò potesse trasformarsi in una campagna di informazione a sfavore del brand, interruppe drasticamente la programmazione, mandando in fumo così un mucchio di denaro già investito. Lo IAP, richiamando l’art. 10 del Codice di Autodisciplina (Convinzioni morali civili, religiose e dignità della persona), denunciava che “La struttura del messaggio trasferisce sulla donna l’appetibilità dell’alimento, con una commistione di piani che comporta la sostituibilità dell’una all’altro e conduce in tal modo alla pura mercificazione della persona.” Secondo tale principio non si dovrebbero censurare almeno metà delle campagne pubblicitarie di sempre? E questa è l’altra faccia della medaglia.
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