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Il potere e il nostro corpo

Il potere e il nostro corpo

Cultura/ Danza. Caterina Sagna - Manipolazioni psichiche, messaggi subliminali, poteri che limitano corpo e pensieri, questi gli elementi dello spettacolo “Heil Tanz!”

Giulia Salvagni Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2005

Quanti comportamenti e quanti desideri indotti si insinuano in noi mentre la nostra consapevolezza sembra essere altrove? Potere, violenza, sopraffazione, questi gli elementi che la coreografa Caterina Sagna utilizza per comporre “Heil tanz!” uno spettacolo provocatorio, irriverente che analizza la relazione pericolosa fra l'arte ed il potere.
L’artista che, nel giugno 2002, ha ricevuto a Parigi il premio della Sacd “Nouveau talent chorégraphique”, si cimenta con un tema difficile, si inoltra in un reticolo che lega comportamenti, scelte, umori e di conseguenza condiziona anche il lavoro degli artisti contemporanei.
Attenzione, sembra dire la coreografa, l’arte contemporanea non è così liberatoria come si pensa, dietro alla “naturalezza” ed alla “spontaneità” espressiva contiene dei tranelli. Tranelli posti su sentieri psichici ben precisi, già conosciuti dai pubblicitari e da chi fa della manipolazione il proprio mestiere.
A partire dai nazisti, e forse già prima di loro, i potenti hanno sempre interferito nell’arte ed in particolare sul corpo, l’arte del corpo, la danza, come mezzo per l’affermazione delle proprie ideologie. Si pensi ai cattolici, che già avevano agito sul corpo in modo pesante, chiudendolo in tonache, cacciando la danza rituale dalle chiese nel Medioevo, ancora oggi non riescono a trovare un modo equilibrato nel relazionarsi con il tema della fisicità soprattutto se femminile. Oppure, al contrario, si pensi al mito del corpo perfetto, alle coreografie di massa create per le olimpiadi naziste e filmate da Leni Riefensthal.
C’è molta curiosità quindi nei confronti di questo spettacolo creato nel 2004 ma non ancora rappresentato in Italia. La drammaturgia di Roberto Fratini Serafide, che dal 2001 collabora con la coreografa, aggiunge spessore ai contenuti ma senza concedere nulla alla pratica della narrazione tradizionale. “Noidonne” ha incontrato la coreografa per un breve colloquio in anteprima sullo spettacolo.

Ironia e drammaticità, puoi farmi qualche esempio di come pensi questi elementi e li misceli insieme?
Per me è fondamentale che uno spettacolo contenga enigmi e domande. Fare teatro, se non si vuole fare pura propaganda, significa considerare lo spettatore come parte attiva e indispensabile per la comunicazione. Per questo è importante mantenere un alto grado di ambiguità, che non significa mancanza di chiarezza ma apertura a letture diverse. L’ambiguità, in “Heil Tanz!”, non è certo incertezza o indecisione ma è l’evocazione di una linea di confine tra crudeltà vera e finzione paradossale, che ogni spettatore vede posizionata diversamente. Gli interpreti hanno il difficile compito di mantenere mobile questo confine credendo alle situazioni più assurde e astenendosi da qualunque giudizio interpretativo. Così, ogni spettatore potrà scegliere se ridere o spaventarsi e poi, eventualmente, pentirsene. Contraddizione e ambivalenza: il titolo stesso può servire da esempio in quanto provoca le reazioni più contrastanti: dicono che è troppo violento, ironico, insopportabile, cretino…

Da quale esigenza è nata la scelta di unire la parola alla danza, e poi la collaborazione con il drammaturgo?
Per un lungo periodo, ogni spettacolo partiva dall'elaborazione di un testo letterario: dal primo lavoro del 1987 tratto da Le Serve di Genet, fino a "Sorelline", del 2001, tratto da Piccole Donne di L.M. Alcott passando per Cocteau, Buchner, Kafka, Rilke, Valéry, Christa Wolf, Barthes, Ignazio da Loyola. Ho sempre avuto bisogno di lavorare su un testo, di mantenerne le caratteristiche che mi colpiscono maggiormente trasformandole in movimento. Il rapporto tra i personaggi, o meglio tra le persone in scena, così come le relazioni, gli sguardi, le posizioni e le tensioni tra loro, sorgono da un’esigenza drammaturgica che precede l'inizio delle prove con gli interpreti.
L'incontro con Roberto Fratini Serafide, con cui lavoro dal 2001, ha permesso un approfondimento del mio lavoro sia per la scrittura scenica, sia per l'inserimento di testi all'interno dello spettacolo, sia per l’analisi. Il mio interesse per la parola si manifestava attraverso una "non verbalizzazione", mentre con Roberto abbiamo integrato la parola in tutte le fasi del lavoro: dalla progettazione allo spettacolo vero e proprio. Le possibilità di espressione della danza si sono quindi allargate, (ri)conquistando un terreno confinante. E’ come aver liberato la danza da un mutismo che non vivevo più come punto di partenza ma come limite e considero questa conquista un arricchimento della danza, un allargarsi, e nient’affatto come un allontanamento dal movimento.

Una drammaturgia non narrativa, quindi, che in questo spettacolo intende sollecitare riflessioni sul rapporto tra corpo e potere. Immagino che per la elaborazione dello spettacolo avrà raccolto sul tema materiali specifici, ha voglia di parlarne?
Preferirei lasciare allo spettatore il compito di risalire alle fonti dei materiali utilizzati. Quello che è importante non è identificare le citazioni ma mettersi individualmente in rapporto con le situazioni. Ogni sequenza è costruita per essere un riferimento "chiaro", leggibile da chiunque, indipendentemente dalla capacità di riconoscerne le fonti e può rivelarsi agghiacciante o estremamente ironica, secondo l'esperienza personale di ogni spettatore. Lo spettacolo è costruito mescolando tra loro, confondendo, eventi storici e paradossi, senza escludere episodi di "fascismo quotidiano" che subiamo regolarmente nella vita di tutti i giorni, senza quasi più rendercene conto. Il Teatro non è certo escluso dalla battaglia: è il nostro bersaglio più prezioso e non un involucro vuoto dove denunciare situazioni esterne.

Secondo un’opinione diffusa fino a qualche decennio fa, ma ancora oggi radicata in alcuni, il corpo della danza è visto per lo più come corpo femminile o effeminato (se maschile).
Vorrei premettere che "Heil Tanz!" ha esclusivamente interpreti maschili non per andare contro un'idea che mi auguro superata ma per una specifica esigenza drammaturgica. Volevamo mettere in risalto la discriminazione della scelta degli interpreti, per rendere più evidente uno dei tanti aspetti dell'abuso di potere che affrontiamo nello spettacolo. Preciso che un'equipe esclusivamente femminile sarebbe stata ugualmente efficace. Dal punto di vista generale, la danza ha sfondato l'orizzonte che la circoscriveva ad un arte "effemminata", perdendo l'interesse esclusivo verso un'estetica del movimento ed allargandosi a problematiche più intrecciate alla vita reale e alle sue questioni. La grazia, la cura del corpo, il piacere dello sguardo hanno lasciato il posto a riflessioni di carattere filosofico, sociale, esistenziale, eccetera. La danza è diventata un mezzo per analizzare la condizione umana in tutti i suoi aspetti, dimenticandosi di essere stata la rappresentazione di un ideale. Personalmente, la scelta degli interpreti avviene con criteri di analisi sulla persona, non sul suo corpo. Non credo ci siano corpi inadeguati per un palcoscenico.

Perché solo uomini in “Heil Tanz!”?
In questo momento lavoro meglio con gli uomini perché generalmente sono più chiari e diretti e per “Heil Tanz!” non volevo mettere l’accento sulla psicologia dei personaggi. Comunque, terminato l’allestimento mi sono resa conto che lo spettacolo non avrebbe certo perso di forza se avessi optato per una formazione esclusivamente femminile. Sarà per la prossima volta, forse.

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