Mercoledi, 18/03/2020 - Il paradosso
di Matilde Tortora
Avevamo chiuso e lasciato la casa, e aperto una nuova casa, più piccola certo, decisamente più piccola rispetto a quella dove abbiamo vissuto per tanti decenni e siamo venuti a vivere qui in Germania, proprio per accorciare le distanze tra noi e i nostri nipotini.
La cosa più difficile e che ci ha richiesto due, tre anni di impegno anche fisico è stata il dovere dare una destinazione alle migliaia di libri che possedevamo, o per meglio dire, che ci avevano posseduti in tutti questi anni, abitando le nostre menti, le nostre mani, costituendo gran parte della nostra vita.
Ma ce l’avevamo fatta. Trovate alcune destinazioni per essi, inscatolato tanto, che ancora adesso sento sulle mani il sapore dei cartoni, dello scocht per imballare, delle piccole ferite da stress alle nostre mani, delle fuggevoli carezze ai libri dati, prima che si inabissassero per sempre, scomparendo alla nostra vista.
A chi mi domandava che cosa stessi provando, rispondevo “mi sento come deve forse sentirsi un tuffatore, chi sta per lanciarsi dall’alto di un trampolino, attirato dalla bellezza di tanto azzurro compatto”.
L’azzurro compatto in verità era il verde intenso di una regione straniera, i suoi ruscelli che, pur in una città tanto grande e popolata, ce lo siamo ritrovato a pochi passi dalla piccola nuova casa dove siamo venuti ad abitare, a Pasing.
Ne sono stata entusiasta e andavo scrivendo ai miei amici “l’azzurro compatto in cui mi sono tuffata è tutt’altro che azzurro, non avrei mai pensato fosse invece questo verde compatto, con perfino gli scoiattoli che vedo a volte saltare sugli alberi”, mi sembrano degli indomiti tuffatori”.
Gli amici, dovendone lasciare tanti di quelli storici, mesi fa avevo chiesto amicizia su facebook a trenta nuovi virtuali che abitassero nella nuova città straniera, scegliendoli nei campi da me da sempre frequentati. Sicché, avevo ancora tutti gli scatoloni testimoni muti eppure tanto eloquenti nelle stanze di prima, che già avevo trenta nuovi amici , e perfino già una lista di inviti da loro pervenuti a tante interessanti attività nella nuova per me città, che essi abitavano già da anni.
Perfino Paolo Conti, lo straordinario avvocato cantante mio quasi coetaneo, artista insigne, avrei in febbraio potuto ascoltare dal vivo, avendo appreso sul diario facebook di una delle trenta amiche virtuali, che sarebbe venuto a tenere un concerto qui.
Anche un altro incontro, imprevisto quanto intenso, stavo per fare. Mentre mi appuntavo e cercavo di imparare bene a pronunciare il nome della strada dove, di lì a poco sarei andata ad abitare, come di consueto ho sempre fatto ogni volta che ho abitato in qualche posto nuovo, mi sono incuriosita del nome della strada dove sarei stata ad abitare.
Ed è così che ho incontrato Rahel Varnhagen, che nel 1790 nella sua mansarda berlinese incontrava, giovanissima, ad appena diciannove anni, letterari, politici, che fu pure amica e stimata da Goethe, sicché ho poi voluto sapere tutto di questa donna, nel cui nome avrei percorso strade per me nuove, dalla pronuncia un po' ostica, cui mi ero destinata.
Sicché mi affaccio sulla strada, stamane 18 marzo 2020, ripeto il nome di Rahel Varnhagen, lo sto imparando a pronunciare. Da lontano posso vedere i miei nipotini che vanno in bici. Da lontano li saluto. Tutti ci dicono di stare però loro lontano.
Che strano!
Avere fatto un tuffo così coraggioso, proprio per stare loro vicino e temere di potere essere da loro contagiati…starne lontano. Daccapo, di nuovo, come se le molle di uno strano elastico decidesse per noi gli esiti futuri di un tuffo in tutto quell’azzurro, in tutto quel verde compatto e nuovo.
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