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Il paese in cui voglio sempre tornare

Il paese in cui voglio sempre tornare

ECUADOR - Giovanna Tassi, italiana di Imola, è direttora della Radio Pubblica ecuadoriana. La sua storia parla di coraggio, curiosità ed una energia inesauribile

Angelucci Nadia Lunedi, 17/10/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2016

“Sono arrivata a Quito la mattina del 13 luglio del 1984. Era una giornata piena di sole e appena scesa dall’aereo ho sentito su di me tutta la difficoltà di respirare e muoversi che si prova a 2.800 metri di altezza. Un blocco di cemento sulla testa. Il mio non era turismo, avevo scelto, insieme a mio marito, di partire come volontaria per il MLAL - Movimento Laici America Latina, che in Ecuador stava sviluppando progetti di cooperazione nelle comunità indigene”.

Giovanna Tassi ripercorre per NOIDONNE il ricco periplo della sua vita. Su una Quito scintillante, che entra prepotentemente dalla vetrata del suo salone, la sera comincia a calare e una pioggerella sottile accompagna la lunga conversazione. Le varie vite di Giovanna si sovrappongono e compongono un quadro di differenti colori che però conserva un tono comune, quello della forza e della volontà di rimanere sempre fedele a se stessa.



“I primi anni in Ecuador li ho vissuti a Pesillo, 3500 metri sopra il livello del mare. Una comunità quichua che viveva immersa nei rigori e nella fatalità della Sierra ecuadoriana. Quando ho visto quel luogo mi è venuto un colpo: avrei vissuto in una casa di terra, senza acqua, esattamente come il resto della comunità di cui, con il tempo, sarei divenuta parte. Per fortuna mi abituo facilmente. Ci siamo costruiti una casa di due piani con cucina, camera da letto, e latrina all’esterno. E un camino davanti al quale mi facevo il bagno una volta alla settimana in una grande bacinella di plastica. Gli indigeni mi dicevano che io ero matta a buttare tutta quell’acqua per lavarmi ma io avevo a disposizione una macchina per trasportare l’acqua e quello era il mio lusso. È stata un’esperienza molto bella, ho vissuto la vita quotidiana della comunità, ho capito a fondo quel mondo. Dato che mio marito era medico entravo in contatto con tutte le famiglie. Lavoravamo molto anche con le donne e con le parteras (levatrici) a cui ho visto fare delle cose incredibili. Sono capaci di muovere un bambino sistemato male nella pancia della mamma ricorrendo a delle fasce che passano sul corpo delle donne. Facemmo in modo che la divisione di salute del Pichincha (provincia ecuadoriana, ndr) accettasse le parteras nel sistema di salute pubblico. Fu una grande vittoria perché a quell’epoca la medicina indigena era considerata stregoneria. Da questa esperienza è nato il libro De lo magico a lo natural, la medicina indigena en Pesillo.



Cosa ha significato immergersi in un mondo così sconosciuto?

È stata un’esperienza in cui ho messo in discussione molte delle mie convinzioni. E ho avuto la possibilità di capire il modo in cui gli indigeni vedono il mondo. C’è stato un episodio che è stato determinante in questo senso. Sono laureata in teologia e mi ero offerta di aiutare i salesiani con la catechesi. In uno dei corsi di preparazione al battesimo avevo parlato del Diluvio universale e dell’arcobaleno come segno della fine del diluvio e dell’alleanza tra uomo e dio. Alla fine si presentò un vecchietto con il suo poncho. Mi diede la mano alla maniera degli indigeni, nascondendola sotto il poncho - questo è retaggio del passato coloniale quando gli indigeni non potevano neanche toccare i bianchi - e mi disse ”sa doctorcita succede che il kuichik (l’arcobaleno) per noi è uno spirito maligno che mette incinta le bambine”. Entrai in crisi, rinunciai all’incarico e capii che dovevo mettermi a studiare. Era assurdo insegnare la nostra religione con le nostre categorie. E quindi ho studiato come era organizzato il mondo dei quichua.



Poi sei arrivata in foresta?

La selva è la mia vita. Nel momento in cui ho visto quel mare di verde ho capito che quello era il luogo in cui dovevo nascere. I ritmi, il clima, il modo di vivere in foresta sono quelli più consoni alla mia personalità. Ho cominciato a lavorare alla CONFENAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas de la Amazonía Ecuatoriana), mi occupavo del giornale, e ho conosciuto Carlos Viteri, un antropologo quichua di Sarayacu. È stato il mio compagno per tanti anni e abbiamo avuto due figli. Con lui sono entrata a far parte di una famiglia indigena e ho vissuto in una comunità in selva condividendo la vita e le battaglie di quelle persone. I miei figli sono nati lì e sono cresciuti in questa comunità, io me li legavo sulla schiena come le donne del posto e andavo a lavorare nella chagra (fattoria), preparavo la chicha (bevanda), li mettevo a dormire sulle amache mentre lavoravo. In quel luogo una delle persone chiave è stata Rebeca, la madre di Carlos, che mi ha accolto e insegnato tutto quello che so sulla selva. È stato il mio tramite e la persona che, appena arrivata davanti alla famiglia, mi ha offerto un bicchiere d’acqua e limone, chiarendo a tutti che io ero stata accettata come membro di quel gruppo. All’inizio è stato difficile perché ero una straniera; quando è nato il mio primo figlio mi dicevano che era un peccato che fosse così bianco. Rebeca è analfabeta ma è una donna che ha una cultura immensa e un senso estetico sconfinato. È figlia di uno sciamano, un uomo molto importante e con le sue mani operose modella ceramiche sorprendenti.



Nella selva scopri un’altra spiritualità.

Per le popolazioni indigene della selva amazzonica ogni cosa è animata. Io mi sono trovata subito a mio agio con questa cosmovisione, forse perché sin da piccola ero attratta da un mondo fantastico, quello dei druidi, degli elfi. E quindi non ho avuto problemi a credere che gli alberi, le foglie, l’acqua, avessero un’anima. Nella selva il mondo vero non è quello in cui viviamo tutti i giorni ma questo ultramondo a cui si accede attraverso riti e cerimonie nella quali si usa assumere sostanze che aiutano il nostro spirito ad accedere al mondo al di là. Il mediatore per eccellenza è lo sciamano, che ha una funzione importantissima per tutta la comunità e anche per ogni individuo della comunità. Con la differenza che, mentre nella sierra lo sciamano individua la causa e cura la malattia della persona, nella selva intraprende una lotta con chi ha provocato quella malattia. Io sono stata curata da uno chaman (sciamano) che mi ha liberato da un susto (perdita dell’anima) e mi ha fatto rinascere. Entrare a fondo in questo mondo mi ha portato a scrivere un libro sugli Huaorani, una popolazione della selva che sta in isolamento volontario e non gradisce i contatti con la civiltà occidentale: Naufragos del mar verde. La resistencia de los Huaorani a una integración impuesta.



La tua vita in selva non è stata attraversata solo da momenti familiari e intimi ma ti ha coinvolto anche nelle battaglie politiche dei quichua della selva?

Si, ho vissuto con loro dei momenti storici importanti. Il più emozionante è stato sicuramente la marcia di 500 chilometri a piedi, nel 1992, da Puyo a Quito, per ottenere i titoli di proprietà della terra (900mila ettari); abbiamo vinto dopo estenuanti negoziati con il governo di Rodrigo Borja. È stato un avvenimento epico che ricorderò sempre anche per le innumerevoli dimostrazioni di solidarietà della gente. A Pelileo, già sulla sierra, a mezzogiorno il sole batteva molto forte e rendeva l’asfalto incandescente. Gli indigeni amazzonici marciavano scalzi e la gente buttava acqua sull’asfalto perché non si bruciassero i piedi. Erano i giorni vicini a Pasqua e una famiglia di sconosciuti mi vide marciare con mio figlio Arau di 4 anni e ci invitarono a mangiare la fanesca (piatto tipico). Sui giornali apparve la foto di una donna dai capelli rossi che marciava insieme agli indigeni. Con molto folclore, e rivelando la loro visione colonialista, dissero che guidavo la marcia, mi chiamavano “la puta de los indigenas”.



Altra tappa importante sono gli Stati Uniti?

Abbiamo avuto un colpo di fortuna e Carlos è stato chiamato come consulente delle Nazioni Unite. Washington mi è piaciuta tanto. Ho trovato lavoro in una radio latina. Era una radio commerciale ma io, che credo che la comunicazione sia un servizio, mi ritagliavo programmi più sociali: con i detenuti sulla lettura, con la biblioteca per raccontare le favole in spagnolo ai bambini di seconda generazione perché non perdessero il contatto con la loro lingua madre.



Il rientro in Ecuador ti ha riservato nuove sorprese.

Si, cercavo lavoro e ho fatto girare il mio curriculum tra gli amici. Il governo di Correa, appena installato, stava cercando delle persone e mi hanno preso nella Segreteria di comunicazione. Con il tempo, e con la legge sui mezzi di comunicazione che ha potenziato la radio e la televisione pubblica, mi hanno chiesto di lavorare a questo nuovo progetto, prima come direttore di produzione e poi come direttora della radio. È un lavoro meraviglioso che mi impegna completamente ma che adoro. La mattina alle 6 sono in televisione con un notiziario informale, alle 8,30 sono in radio con il mio programma storico La Cabina; sempre in radio, due mercoledì al mese, la sera, curo el Concierto de ideas, dibattiti pubblici su vari temi e il sabato sera sono di nuovo in TV con un programma sull’Amazzonia, Palabra amazonica.



E le radici dove sono?

Non ho rinunciato alle mie radici italiane però il paese in cui voglio sempre tornare è l’Ecuador. È il luogo in cui posso esprimermi completamente, che mi ha donato nuove vite. Qui ho la sensazione di esistere, di poter cambiare le cose. Questo è il luogo in cui ho scelto di vivere e ho un debito con questo paese per tutto quello che mi ha dato, compreso l’onore di affidare una parte della res pubblica ad una straniera, anche se adesso ho preso anche la cittadinanza ecuadoriana. E poi la possibilità di dedicarmi alla mia passione, al giornalismo. Anche questo è qualcosa che finirà, lo so; il mio è un incarico politico e potrei non essere rinnovata con il nuovo governo. Se così fosse penso di tornare a vivere in Amazzonia, il mio amore, e magari aprire un catering di tiramisù e pizza a Puyo.

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