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Il nuovo dovere materno

Il nuovo dovere materno

Conversazione con Anita Regalia - Il feto si è trasformato in un “portatore di rischio”; l’autodeterminazione è diventata “obbligatoria”

Ribet Elena Lunedi, 17/05/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2010

“Le probabilità sono una cosa, le certezze sono un’altra. Spesso si attribuisce agli esami prenatali un valore predittivo che in realtà non hanno. Rispetto alle scelte ci sono condizionamenti alimentati da luoghi comuni, dal medico, dalle amicizie, dalla società in generale. È difficile per una donna o per una coppia fermarsi e decidere cosa va bene per lei, per loro”.

Anita Regalia, ginecologa e docente universitaria, ha lavorato tra l’altro come consulente di gruppi di donne in gravidanza sui temi della diagnosi prenatale. Attraverso il lavoro sulla rappresentazione delle paure e sull’evidenza del reale, dando informazioni specifiche e affrontando i dubbi delle donne, il dato che emerge è che al termine degli incontri le donne, nel 43% dei casi, non erano più molto sicure di voler fare indagini prenatali. Un altro dato importante è che, se il 3-4% è la prevalenza assoluta di malformazioni, poche donne conoscono veramente quali esse siano: il piede torto, l’ipo-epispadia (alterazioni dello sbocco del meato uretrale), difetti cardiaci, il labbro leporino, la sindrome di Down...

“Il problema è che oggi manca un approfondimento sui contenuti. Occorre un equilibrio tra ‘sapere’ e ‘sentire’. Ogni buona scelta che ci appartiene profondamente, agisce sulla rappresentazione individuale e collettiva, ha valore oltre quella donna, quella coppia, quel bambino, quella bambina. È dovere della medicina non colpevolizzare la singola donna, in particolare le nuove generazioni che vivono una situazione di ansia e di fragilità. Relazionarsi, difendere i tempi del counselling, capire che non è vero che le donne possono prendere decisioni libere, consapevoli e responsabili. Le scelte delle donne sono ancora molto condizionate”.

Le parole di Anita Regalia ricordano molto quelle di Barbara Duden, sociologa e storica delle donne, autrice tra l’altro del libro “Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull'abuso del concetto di vita” (Editore Bollati Boringhieri).

Le domande di fondo di Duden sono: cos’è il feto? Perché la donna incinta è diventata l'ambiente uterino per l'approvvigionamento di un feto? Perché le donne servono quella vita della quale credono di doversi assumere la responsabilità? Perché l'acquisizione del feto priva la donna del proprio corpo e la degrada al ruolo di cliente/paziente bisognosa di assistenza? Sempre Duden avverte del pericolo di perdere la saggezza e la conoscenza delle donne nelle generazioni di oggi: quel sapere intuitivo, ma anche fisico, corporale, che è ormai diventato ambito esclusivo e monopolio di altri.

Stiamo parlando del concetto di “rischio” e di “responsabilità”, che stanno sulle spalle, nella pelle e nel corpo delle donne.

“Il mio lavoro di Consulenza di gruppo per la diagnostica prenatale è partito da un disagio che avvertivo rispetto alla superficialità diffusa. Mi sono chiesta come fosse possibile che certe persone, che si scandalizzano sui temi del fine-vita, su casi come quello di Welby, potessero poi arrivare con tanta facilità a prescrivere indagini prenatali”.

Sono affermazioni forti, che partono da un numero. 1/350. Uno su trecentocinquanta sarebbe la soglia di “rischio” considerato “giusto”, limite che ha definito la soglia delle indagini gratuite o a pagamento, limite che induce un bisogno e che viene recepito da ogni singola donna in un modo differente. Esiste un rischio “accettabile” quando si tratta del proprio bambino o della propria bambina?

Duden dice che la donna oggi è spinta a una serie di decisioni, la cui pressione è esercitata da altri seppur ogni volta siano le stesse donne ad aver l’ultima parola (e l’ultima responsabilità). Di volta in volta i test mettono in dubbio questo bambino, o questa bambina, che deve nascere: si inizia con l’incognita dei primi tre mesi, poi con quella delle indagini come l’amniocentesi, con l’esito che l’attesa di un bambino o una bambina non rappresenta più un motivo di gioia. Il feto si è trasformato in un portatore di rischio.

“Secondo un’indagine condotta da Altroconsumo, il 62% delle donne in gravidanza hanno fatto indagini prenatali. Di coloro che non le hanno fatte, il 60% avrebbe in ogni caso portato a termine la gravidanza; tra le ragioni per non farle, la disinformazione, la paura, l’essere sconsigliata. Qui siamo di fronte alla definizione di un nuovo dovere materno, in cui è solo e soltanto la donna a dover prendere una decisione responsabile sul futuro del proprio bambino o della propria bambina. Questo è uno dei nuovi modi che la società odierna ha trovato per autorassicurarsi sull’incertezza che da sempre l’idea e il fenomeno della nascita portano con sé. Ma con quali ricadute?”.

Così, la donna che decidesse di portare a termine una gravidanza con referti negativi, è classificata già a priori come incinta di qualcosa di sbagliato, e l’alternativa (alternativa reale, accettabile, innocua?) è quella di interrompere la gravidanza.

In tutte le fasi in cui è la donna che deve decidere, da sola, mortificata da una continua percezione del rischio, potremmo parlare di “autodeterminazione obbligatoria”.

Per dirla con Duden, “le donne non sono incinte per una quantità statistica, ma di un bambino o di una bambina. Tutti i calcoli non hanno senso, sono rischi astratti alla base delle decisioni che le donne devono prendere. Le donne che vogliono diventare madri non possono fare nulla, ma devono decidere tutto”.

Quindi, in questa trappola decisionale, il rischio è rappresentabile come una probabilità, nel futuro, di cui non si possono conoscere gli esiti: un concetto di possibilità che viene assimilato al concetto di “sicurezza”, ma che in realtà “in modo endemico produce insicurezza e impedisce alla donna di essere ciò che è”.

Si tratta di una forma di violenza verso il senso naturale delle cose, in cui le donne sono tenute ad assumere obbligatoriamente una scelta su qualcosa che non possono conoscere: senza considerare che avere un bambino richiede di per sé coraggio, fiducia, e senza considerare che nessuno può dire prima come sarà.

Le donne andrebbero incoraggiate e accompagnate, ma non guardando alla nuova vita che sta per nascere attraverso un calcolo programmato di svantaggi e vantaggi, né guardando al corpo delle donne attraverso lo schema burocratico e amministrativo delle statistiche.

“Le offerte tecnologiche sono un altro esempio del controllo, dell’enfasi distorta che la società pone: la paura della sterilità, la riproduzione assistita, la salute neonatale, l’analgesia per il parto indolore, il taglio cesareo, il concetto di prevenzione, sono tutti temi in cui la società ha posto il concetto di ‘sicurezza’ come un imperativo etico per cui è considerato colpevole ogni rifiuto di comportamenti definiti a priori come ‘responsabili’. Siamo al paradosso in cui la società non possiede le tecniche, ma ne è posseduta”.



(17 maggio 2010)

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