Quando incontra Jim Diamond, Jessica Dimmock ha ventotto anni. È una fotografa e vive a New York. A Lower Manhattan Diamond la vede in strada intenta a scattare e si avvicina per essere fotografato. Si presenta: è uno spacciatore di cocaina. Da qui un giro notturno per il quartiere, le feste esclusive e gli scambi veloci di droga. Per le strade e nelle cabine telefoniche. Poi, un appartamento al nono piano: «Alla fine della terza serata trascorsa insieme, mentre salivamo in ascensore, Jim mi ha preparato a quello che avrei visto dentro. C’erano quattro o cinque persone sedute su mucchi di vestititi e mobili rotti e il pavimento era coperto di rifiuti. La storia di queste fotografie è cominciata da lì».
Così nasce «The Ninth Floor». Da un incontro casuale e dalla visita di un appartamento nel centro della Mela. Duemila metri quadrati, vicino la 4 West 22nd Street, dove vive una comunità di tossicodipendenti. Le tende sono sempre tirate, le serrande abbassate. La luce del sole non entra. Per più di due anni la Dimmock ha fotografato gli eroinomani del piano. Diventa una di casa, protetta dai nuovi arrivati con la frase «lei è autorizzata».
«Il nono piano è un piano come un altro di un palazzo qualsiasi di Manhattan. Ma in questo caso è l’appartamento dove un gruppo di eroinomani si ritrova, compra e vende droga, dorme, litiga, fa l’amore, vive. Dietro la porta c’è un mondo sconcertante dove vigono altre regole e dove le emozioni e gli affetti hanno eccessi e vuoti impensabili». Le stanze sono un corpo che si decompone. Un abisso univocamente tragico sul cuore di una città da commedia. In un tempo dilatato che, nella sua dilatazione, è eternamente fermo sull’abisso. Nell’assenza del cambiamento – niente si muove perché tutto è chiuso su se stesso senza variazioni – i gesti sono immobilizzati, quasi plastici. Le bocche distorte e gli sguardi vacui, la fissità dei buchi sulla pelle tatuata: tutto definisce un’estetica dell’abbandono, una tossicità contagiosa.
La fotografa non si allontana di fronte al sangue che cola sulle braccia, le violenze, il sesso. Non nasconde una ritualità che è sempre identica: letti disfatti, droga, ira. Ne esce fuori un linguaggio algido che, tuttavia, non rinuncia alla compassione. Potrebbe fare aspirare a una purificazione. Ma non risponde alle domande sul destino degli abitanti del piano. La fine toccata al proprietario, Joe Smith, passato da frequentatore di Andy Warhol a vivere su un divano e a chiedere aiuto per iniettarsi l’eroina. A Jesse o alla coppia che dopo la nascita della figlia, Matilda, si allontana dall’appartamento. Forse, tra i sommersi, sono gli unici a salvarsi.
Per «The Ninth Floor» la Dimmock ha vinto il «Premio F», dedicato alla fotografia per la documentazione sociale, e il «Premio Inge Morat» di Magnum. Dal libro, edito da Contrasto, sono tratte le foto della mostra esposta negli spazi di Officine Fotografiche fino al 24 maggio. L’esposizione, nata in collaborazione con Fondazione Forma per la Fotografia, è curata da Eliana Bambino, Mariella Boccadoro, Sarah Carlet, Valeria Fornarelli, Mario Gentili, Elena Hanim Onem, Annalisa Polli, Flavia Rossi. Coordinati da Alessandra Mauro.
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