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IL NO DELLE DONNE PER SALVARE LA COSTITUZIONE

IL NO DELLE DONNE PER SALVARE LA COSTITUZIONE

La riforma costituzionale accentra il potere nelle mani dello Stato. Per le donne, invece, è importante che il potere politico sia diffuso e capillare, perché solo così, può essere accessibile a tutti...

Giovedi, 01/12/2016 - Per scrivere la Carta Costituzionale dei nostri diritti fondanti, un’Assemblea composta da 556 Costituenti svolse i lavori fra il giugno 1946 e il dicembre 1947. Il compito di redigere il progetto da sottoporre al voto dell’Aula, fu affidato a una commissione di 75, presieduta da Ruini, mentre tre sottocommissioni si occuparono di: diritti e doveri dei cittadini, organizzazione dello Stato e dei rapporti economico-sociali. A redigere il testo, armonizzando quello dei tre gruppi, un ristretto Comitato di redazione (il Comitato dei 18). I lavori della Commissione dei 75 terminarono il 12 gennaio 1947 e il 4 marzo cominciò il dibattito in Aula. La Costituzione fu approvata il 22 dicembre, con 458 voti favorevoli e 62 contrari. Della Commissione fecero parte grandi giuristi come, Gaspare Ambrosini, Piero Calamandrei, Giuseppe Dossetti, Giovanni Leone, Aldo Moro, Costantino Mortati, Tomaso Perassi, Paolo Rossi, Egidio Tosato, Giuseppe Maria Bettiol, Giorgio La Pira, Giuseppe Codacci Pisanelli, Aldo Bozzi, nonché intellettuali come Emilio Lussu, Lelio Basso, Concetto Marchesi. Ruini noterà che “la maggior parte dei cattedratici erano giuristi” e che tra loro si trovava il “fiore dei costituzionalisti italiani”. Non si potrà dire lo stesso dei parlamentari che tra il 2014-2016 si assumeranno l’onere di riscrivere la Costituzione. La Carta del 1948 è talmente ben scritta, che nel 2006 si meriterà un premio Strega speciale, ritirato dall’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. È il libro di tutti gli Italiani e dev’essere comprensibile a tutti, in un Paese dove nel dopoguerra, il 60% degli over 14enni è ancora analfabeta. Meuccio Ruini all’epoca, aprendo i lavori della Costituente ritenne fondamentale che la Costituzione fosse capita dal popolo a cui si rivolgeva. E fu seguito dai 556 padri costituenti, che pure provenivano dalle culture politiche più diverse, anzi opposte. Una volta ultimata, per renderla più lineare e intellegibile, venne sottoposta al grande linguista Pietro Pancrazi. Risultato: un testo agile e cristallino: 9.300 parole in tutto (secondo i calcoli del linguista Tullio De Mauro), una trentina di cartelle, con appena 1.357 vocaboli e frasi lunghe in media, meno di 20 parole. “Il 93% della Costituzione - osserverà De Mauro - è fatto con un vocabolario di base della lingua italiana, che già nelle scuole elementari, per chi le fa, può essere noto bene”. Come diceva Luigi Settembrini, patriota e letterato napoletano: “Per avere una buona lingua, serve un buon Paese. E viceversa”. Poi arrivano gli “ispirati” della Seconda Repubblica. Chi legge la prima parte, quella rimasta intatta, confrontata agli articoli della seconda, modificati negli ultimi vent’anni, non può non notare un generale scadimento in verticale dal dopoguerra ad oggi, anche della stessa classe politica. Si comincia nel 1999 col “giusto processo” di Cesare Previti e si giunge ai cambiamenti di oggi, con i cosiddetti rottamatori, soprattutto della lingua italiana. Per come si esprimono, necessitano di traduzione simultanea e codice di decrittazione. Lo fa ben notare il senatore Pd Walter Tocc, il 17 luglio 2014, nel suo intervento in Senato: “la Costituzione è come la lingua che consente a persone diverse di riconoscersi, di incontrarsi e di parlarsi. La Carta è il racconto del passato rivolto all’avvenire del Paese. Se la Costituzione è una lingua, lo stile è tutto. Senza lo stile è possibile l’autocompiacimento del ceto politico, ma non il riconoscimento repubblicano. L’elegante lingua dei Costituenti, con le sue parole semplici e profonde, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito da rinvio ai commi. Rimandi, rimpalli, cavilli, circonlocuzioni burocratesi, che deturpano l’etica e l’estetica della Costituzione. L’apoteosi dell’abominio si trova in tre dei 47 articoli “riformati”; il 70, il 71, il 72 che illustrano l’iter di formazione delle leggi. Il 70 conta attualmente 9 parole: se dovesse essere approvata la “riforma”, quello nuovo sarà di 439. L’art.71 quadruplica: da 44 a 171 lemmi. Il 72 passa da 190 a ben 431. Tutto il ddl Boschi che modifica la Costituzione su Senato, Titolo V e CNEL, è prolisso e ingannevole, con una prosa tratta dal peggior burocratese, l’antilingua, nata nei palazzi della politica per non far capire nulla ai cittadini. Molti i costituzionali che hanno esaminato il progetto nel metodo e nel merito. I costituzionalisti Alessandro Pace e Luigi Ferraioli parlano di riforma eversiva, anticostituzionale, oltraggiosa dettata dalle grandi banche d’affari e dai poteri forti, da Jp Morgan alla Bce, all’Fmi, privi di legittimazione democratica. Il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, l’ha definita antidemocratica e antagonista: “Questa riforma costituzionale, non è affatto una rettifica della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139, introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale, a quella vigente. Modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini garantiti dalla prima parte della Costituzione. Basti considerare, ad es., che la riforma abroga l’art.58, che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, svuotando in tal modo anche l’art.1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Questo potere sovrano, fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attribuito alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali. I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, ma non chiariscono perché pur riformando il Senato, abbiano espropriato i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori. La ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancora di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza, a loro avviso? Alla desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo, e quindi del ruolo di controllo di quello legislativo sull’esecutivo, si aggiunge la disattivazione del ruolo delle minoranze, condannate per tutta la legislatura all’assoluta impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati, rispetto ai 340 della maggioranza governativa. E ciò, nonostante, nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in verità la maggioranza reale del Paese, assommando i voti di 2/3 dei votanti a fronte del residuo terzo, circa, ottenuto dal partito del capo del governo. In assenza di pesi e contrappesi, il gruppo di governo è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo Stato: dalla Rai alle partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti e così via. Un vero pericolo per la democrazia! I sostenitori della “riforma” si trincerano dietro al risparmio che si otterrebbe tagliando i costi della politica, ma la Ragioneria dello Stato ha calcolato che la riforma del Senato consentirebbe un risparmio di soli 57,7 milioni di €. Cifra ridicola, che potrebbe essere risparmiata in molti altri modi e con leggi ordinarie, senza stravolgere la Costituzione, tagliando per es., invece della democrazia, i costi della corruzione e dell’evasione fiscale… Ugualmente priva di fondamento, la narrazione del velocizzare l’approvazione delle leggi, abolendo il bicameralismo paritario: nell’attuale legislatura ne sono state approvate ben 250, di cui 200 (l’80%) senza navetta da una Camera all’altra e solo 50 (20%)con navetta, a seguito di modifiche”. Nella relazione che accompagna il disegno di legge, si legge che questa riforma “risolverà tutti i problemi del Paese adeguando l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”. L’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e in buona misura dei deputati, nonché il travaso del potere dal Parlamento al governo, che costituiscono il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la miglior consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce, dei mercati, delle banche d’affari, insomma, dei poteri forti. Lidia Menapace, grintosa portavoce di Partigiane per il No, classe 1924, tra le voci più importanti del femminismo italiano, pacifista e femminista, sottolinea come questa campagna referendaria debba avere una connotazione di genere.

Giovane staffetta della Resistenza nel Comitato Nazionale di Liberazione di Novara, la Costituzione italiana l’ha vista scrivere. Ha rifiutato il grado di sottotenente che hanno tentato di attribuirle dopo la guerra di liberazione, ed è stata attivamente pacifista, proponendo nel 2001 la Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre. Eletta al Senato nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista, è la prima a porre in risalto l’importanza del linguaggio “sessuato”, come strumento fondamentale contro il sessismo: “è necessaria una rivoluzione semantica, il linguaggio deve essere inclusivo. Chi non è nominato non esiste, le parole sono simboli: inventiamo tutti i femminili possibili, in modo che le donne non debbano tenere su la maschera da uomini.

Nella battaglia referendaria, una compagine femminile all’interno del fronte per il No, è necessaria”. E, alla ministra Maria Elena Boschi che non ha riconosciuto l’esistenza di Donne per il No, ha risposto: “sono una vecchia prof in pensione, ragazza, studia un po’ di storia che non ti farà male.

Questa revisione della Costituzione non è una buona riforma. Io c’ero quando la Costituzione è stata scritta e a quel tempo il dibattito fu molto diffuso. In questo caso invece, il processo di riforma non è condiviso, è frettoloso ed è il disegno di una sola parte politica. Offre un impianto centralistico del potere, attraverso la redistribuzione delle competenze tra Stato e regioni. Per le donne, invece, è importante che il potere politico sia diffuso e capillare, perché solo così, può essere accessibile a tutti. Se una donna è lontana dal centro potere, vede ridotte le sue possibilità di accesso alla politica.

Essere donna, per quanto emancipata, non basta. Le donne non devono imitare gli uomini, ma recuperare una piena coscienza di sé e del femminismo. È questa la priorità, tutto il resto verrà di conseguenza”. Invece, altro che conquista dei diritti e parità con la riforma revisionista e antidemocratica, che toglie potere al popolo e lo consegna ai mercati finanziari! Questa controriforma pasticciata, divide invece di unire e rischia di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento, quando il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico. Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948, che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, costata lacrime e sangue, che dobbiamo difendere e applicare, non tradire!

Floriana Mastandrea



Fonti: Il FattoQuotidiano; Perché No (M.Travaglio-S.Truzzi); Left; Meridio.













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