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Il movimento di liberazione della donna nella Cina di Mao

Il movimento di liberazione della donna nella Cina di Mao

Cina /seconda parte - Con la Repubblica popolare le donne vedono un massiccio inserimento nel mondo del lavoro che offrì opportunità d’emancipazione mai conosciute prima. Le cinesi scoprirono la solidarietà femminile e la lotta

Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2008

L’espansione dell’industria tessile offrì alle donne cinesi un potere contrattuale e opportunità d’emancipazione senza precedenti. Nei primi decenni del secolo XX, in concomitanza con lo sviluppo del movimento operaio e dei grandi scioperi di rivendicazione salariale e di miglioramento dei ritmi e delle condizioni di lavoro (seconda metà del 1921), le cinesi scoprirono la solidarietà femminile e la lotta. In fabbrica, crearono leghe di mutuo-soccorso.
Il risveglio del proletariato cinese, e con esso della coscienza delle masse sfruttate, le cui lotte assunsero nel tempo carattere anche politico, favorì nel paese la diffusione dell’ideologia marxista-leninista, che proveniva dall’influenza esercitata dalla giovane Repubblica dei Soviet, e che incise energicamente sull’ulteriore processo di crescita dei movimenti rivoluzionari e di liberazione nazionale in Cina. Nel 1921 fu fondato a Shangai, in clandestinità, il Partito comunista cinese (Pcc), che divenne in seguito punto di riferimento per la lotta d’emancipazione femminile. Molte donne aderirono al partito, dopo aver fatto il loro apprendistato politico a fianco delle lotte operaie delle filande. Una di queste donne era la scrittrice Ding Ling, che esordì in giovane età con alcuni componimenti in prosa, tra cui ‘Il diario della Signorina Sofia’, che rappresentò il primo racconto della storia della letteratura cinese scritto da una donna per le donne.
L’entrata dei comunisti nel Guomindang (1924) diede l’avvio alla formazione di un fronte unico nazionale antimperialista e antifeudale. Le forze rivoluzionarie avevano ora la possibilità di passare alla lotta decisiva. Tuttavia, gli scioperi politici del 1925-1926 (movimento di protesta del 30 maggio ‘25), guidati direttamente o sostenuti dal Pcc, inasprirono la situazione politica interna aprendo una stagione di guerre civili rivoluzionarie, il cui esito fu la scissione del fronte unico nazionale e il temporaneo rallentamento dell’espansione e del consolidamento della base rivoluzionaria in Cina.
Lo spostamento dell’asse delle rivendicazioni delle operaie da richieste economiche a lotte politiche di liberazione nazionale avvicinarono e fusero quest’ultime con i movimenti femminili di lotta (studenteschi e non) già da tempo attivi sul territorio. Nello stesso tempo, la comunanza degli ideali cinesi con quelli dei “fratelli” sovietici e l’apertura di un varco reazionario - la borghesia nazionale (classe sociale egemone dentro il Guomindang), allarmata dal diffondersi dell’influenza dei comunisti, aveva deciso di compiere il passaggio dal campo della rivoluzione a quello degli imperialisti stranieri, dei feudatari cinesi e dei compradores - comportarono un cambio di rotta delle battaglie femminili che, oltre ad appellarsi al sentimento patriottico, assunsero sempre più carattere di classe. Determinante fu la proletarizzazione del lavoro femminile.
L’ingresso delle cinesi nelle fabbriche acuì il gap tra la condizione delle donne nelle città e quella delle donne nei villaggi. Le contadine, vivendo in un contesto dove il patriarcato feudale era radicato, non riuscivano a liberarsi dalla morsa della tradizione confuciana. Nel corso della Lunga Marcia, le cinesi mostrarono dedizione e coraggio combattendo, compiendo atti di sabotaggio, andando di villaggio in villaggio per trovare cibo, individuare i nemici e soprattutto convincere i contadini ad unirsi a Mao Zedong. In questo frangente, furono realizzati corsi d’istruzione gratuita per le contadine delle zone liberate. Quest’ultime lavoravano la terra, rifornendo di viveri l’esercito e le città sotto il suo controllo, aiutavano a trasportare il materiale bellico e in cambio ricevevano lezioni d’alfabetismo e i primi rudimenti di storia, filosofia e marxismo. Nel frattempo, nella base di Xansi, in qualità di presidente del soviet, Mao promosse già nell’agosto del 1930 un decreto sul matrimonio accompagnato poi da un piano d’interventi nei confronti delle donne, che sanciva la libertà di matrimonio e di divorzio e che aboliva la distinzione fra figli legittimi e illegittimi.
Durante il conflitto cino-giapponese milioni di donne parteciparono attivamente alla guerra, entrando nell’esercito popolare di liberazione ed esercitando in modo diretto il potere nelle zone liberate e controllate dal partito. Quelle che non si arruolarono nell’esercito, producevano a domicilio filati e tessuti, garantendo il soddisfacimento delle ordinazioni del potere popolare. Il conflitto bellico fu particolarmente duro: le armate popolari dirette dal Pc dovettero sopportare da un lato il peso principale della guerra contro gli invasori giapponesi, dall’altro combattere una guerra civile, scatenata dalle aggressioni delle truppe nazionaliste del Guomindang alle zone libere, che si protrasse oltre la vittoria sul Giappone sino alla capitolazione del governo antipopolare di Chiang Kai Shek. Nel 1949, all’indomani della proclamazione della Repubblica popolare cinese, dopo anni di contesa nazionale e civile, la vittoria definitiva della rivoluzione sancì l’avvio della trasformazione del vecchio mondo. Si apriva una nuova epoca nella storia secolare dei popoli della Cina, che segnava il passaggio di questo paese alle vie della trasformazione socialista, sotto la guida del Pc. Il problema dell’ulteriore sviluppo dell’emancipazione femminile non poteva prescindere dal contesto di questa esperienza storica. Essa costituiva di fatto un’acquisizione fondamentale, da cui le donne sarebbero dovute partire per affrontare una nuova tappa verso la loro liberazione.
Prendendo spunto da una celebre frase di Mao, le donne d’ora in avanti dovevano essere considerate “l’altra metà del cielo”, intendendo con ciò riconoscerne il valore e la dignità. Nel 1950 fu varata la legge sulla libertà di matrimonio. Tuttavia, il dato che emerse in modo dirompente fu l’inserimento massiccio delle donne nel mondo del lavoro, per l’utilizzo di tutte le forze produttive necessarie a costruire una società socialista. La stessa scelta di vincolare al piano statale solo i settori strategici dell’industrializzazione, consentendo la creazione di una miriade di fabbriche di quartiere, di laboratori e cooperative, essenzialmente affidate all’iniziativa e alla conduzione delle unità di base, indicava che il partito non concepì affatto il lavoro femminile come risorsa “addizionale”. L’impiego del modello di crescita estensiva, con il decentramento produttivo, stimolò la socializzazione del lavoro domestico e la creazione dei servizi - asili, scuole, mense collettive ecc. (la cui gestione era spesso assunta dalle donne), richiesti dalla particolare struttura socio-economica. L’applicazione del tipo non centralizzato di accumulazione socialista, espresso dal lavoro artigianale e dalle piccole unità di produzione (composte soprattutto da donne e anziani), consentì la rapida costruzione della base materiale del processo d’emancipazione femminile in Cina. Alla fine degli anni ’50, la quota di lavoratrici era del 90%. La riforma del sistema d’istruzione e quella agraria, insieme con una nuova legislazione del lavoro, portò più diritti e maggiori possibilità d’occupazione per le donne.
Il paradigma di sviluppo economico scelto dai cinesi andò poi approfondendosi e chiarendosi nel corso di un’acuta lotta di classe, iniziata con il “grande balzo in avanti” e che ebbe il suo momento di punta con la “rivoluzione culturale”, durante la quale le cinesi dovettero per prima cosa battersi contro i tentativi di Liu Shaoqi di estrometterle dal lavoro produttivo e relegarle nel lavoro domestico. In seguito assunsero un ruolo d’avanguardia quando il partito decise d’affrontare i nodi della divisione sociale del lavoro e della discriminazione salariale, poiché da sempre escluse dal lavoro intellettuale e dai posti di comando, e a causa dei livelli retributivi più bassi di quelli degli uomini. Nel 1969 una direttiva stabilì la presenza del 30% di quadri femminili in ogni Comitato rivoluzionario.
Nel corso dell’esperimento maoista vi furono anche degli eccessi. La retorica dell’uguaglianza tese ad omologare la compagna-lavoratrice con il compagno-lavoratore. Attraverso i film o le riviste si possono ancora oggi vedere le sagome asessuate delle lavoratrici cinesi nelle loro tenute da lavoro (giacche e pantaloni scuri) impegnate a rifare le strade, a guidare trattori o a lavorare nei cantieri ecc. Simbolicamente, esse dovevano rappresentare la parte femminile dell’avanguardia della classe operaia e contadina del paese, con lo scopo di rafforzare il tema dell’egemonia del proletariato. La socializzazione dell’educazione dei figli - nata sulla giusta spinta dell’annullamento della storica separazione tra sfera pubblica e privata - svuotò la famiglia di qualsiasi ruolo. Durante la “rivoluzione culturale”, le decisioni sul matrimonio e il divorzio o su come crescere i figli furono sovente assunte nel corso delle sessioni di critica e auto-critica dei comitati di partito o delle brigate di lavoro. Infine, con i processi condotti dalle Guardie rosse, per l’epurazione degli “elementi borghesi”, molte intellettuali furono ingiustamente confinate nei campi di lavoro.


(21 gennaio 2008)

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