Domenica, 21/07/2013 - Malala Yousafzai entra nell’ampia sala dell’ONU. Sembra ancora più giovane della sua età, sedici anni. Ha in mano i fogli del suo discorso. Mi rendo subito conto che quello che sta per avvenire ha la portata di un avvenimento storico in quanto assolutamente surreale. Malala è dinnanzi al microfono invece che in una fossa assieme alle sue compagne di scuola. Parla con voce sicura dopo che un talebano ha cercato di spegnerle per sempre ogni parola e ogni pensiero con un proiettile nella testa. Atto terroristico con un forte connotato simbolico, come l’aver fatto saltare a suon di bombe il pulmino della scuola femminile che lei frequentava. Il 12 luglio è il giorno del suo compleanno e lei si rivolge proprio in tal giorno ai vertici mondiali del potere per raccontare l’orrore subito e nel far ciò riesce nel miracolo laico di sublimare il dolore e la paura in un atto politico. Perché di questo si tratta, nella sua accezione più ampia. Utilizza parole dirette, concetti semplici e per questo spesso volutamente ignorati dalla comunità internazionale: l’essenzialità pone l’imbarazzo di risposte chiare, senza reticenze.
Il percorso di Malala inizia all’età di tredici anni. Crea un blog per affacciarsi sul mondo e condividere la propria necessità di crescita intellettuale con altre ragazzine. Già da allora è cosciente del fatto che senza istruzione non ci possono essere diritti. Già a quell’età subisce le conseguenze dell’essere nata donna in un Paese dove i talebani chiudono le scuole alle bambine. Una donna che cerca di uscire da una condizione di inferiorità culturale a qualsiasi latitudine è portatrice di un segno di cambiamento che spaventa le società patriarcali. Una adolescente ancora di più perché porta con sé anche il segno del cambiamento generazionale. Tramite internet il suo blog invoca il diritto allo studio per le donne. Tre anni più tardi, tramite le reti televisive di tutto il mondo presenti a New York afferma “…e non ho paura di nessuno”. Quando si sopravvive ad una esperienza estrema di violenza può capitare di uscirne rafforzate o completamente ripiegate su se stesse. Io credo che per la donna la violenza sia doppia: e come essere umano e come negazione del diritto ad essere umano/donna libera. In Malala abbiamo un esempio di come da una doppia barbarie possa nascere una doppia forza. Avrebbe potuto chiudersi nella sofferenza della sopravvissuta, lasciarsi alle spalle tutto il trauma e l’abominio travestito da fanatismo religioso. Sarebbe stata compresa. Non avrebbe avuto altre minacce, come è stato. E’ delle ultime ore la notizia che Adnan Rasheed, il talebano che le avrebbe sparato, ha inviato una lettera aperta chiedendo scusa. In realtà, poi, se si legge bene tra le righe del non detto (ma anche del detto…) emerge il solito atteggiamento manipolatorio che il potere maschilista utilizza, una sorta di “…ti chiedo scusa ma… se tu non avessi fatto… io non avrei reagito”. Anche l’invito fattole ad iscriversi alla scuola scelta dai talebani è il solito modo per concedere quel tanto di pseudo-istruzione ed esercitare tramite esso un controllo . Eppure Malala era stata chiara nel dire che non è interessata a odiare i talebani (…offesa peggiore non poteva fargli…) ma di giungere all’ottenimento degli obiettivi che si è prefissata: farsi promotrice di un movimento di cambiamento globale.
Sorella maggiore ideale di Malala potrebbe essere la diciottenne tunisina Amina, l’attivista del gruppo Femen. Anche lei ha iniziato la sua protesta tramite un blog, a sedici anni. In questo momento è in carcere. Con altre modalità ha cercato di attirare l’attenzione sulla situazione di arretratezza che condiziona la vita delle donne nel suo Paese. Anche lì la violenza contro le donne usa travestirsi con i panni della religione. Non è casuale che lo strumento utilizzato da ambedue le ragazze sia internet. E’ un modo per avere un filo conduttore che unisca le realtà delle diverse società. Per sottolineare la non coincidenza dei confini nazionali con le problematiche femminili. Paesi cosiddetti avanzati hanno traccia evidente di un codice culturale dal dna ancora inequivocabilmente maschile. Nessuna meraviglia,quindi, se durante la diretta dal palazzo dell’ONU il giornalista della Rai ha inconsciamente posposto “sisters” a “brothers” traducendo il discorso di Malala. Varie frasi, infatti e non casualmente, iniziavano con “Sisters and brothers…”, proprio perché anche questa ragazzina di sedici anni si rende conto del valore che la parola assume in ogni contesto. Altro elemento che accomuna Amina e Malala è l’affermazione di non avere paura che a questo punto diviene autoaffermazione, percezione del proprio valore inviolabile. Noi tutte sappiamo da dove nasce questa forza in Malala. Non lo sappiamo per Amina e tristemente lo immaginiamo.
La nostra amata Elsa Morante nel risvolto di sovraccoperta del 1968 per “Il mondo salvato dai ragazzini”, si presenta così: “Elsa Morante è tuttora vivente, e abita a Roma nell’unica compagnia di un gatto. Le sue amicizie ( poche ) le trova a preferenza fra i ragazzini, perché questi sono i soli che si interessano alle cose serie e importanti. Gli adulti, in massima parte, si occupano di roba trita e senza valore.”
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