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Il mio '68 di Marina Piazza

Il mio '68 di Marina Piazza

1968/2008 - «Ma “io c’ero” dentro questa ventata, proprio dentro questo “vento di libertà”: la passione per la politica – che prima era più ideologica e in un certo senso lontana, in altre parti del mondo - si trasformava nella legittimazio

Marina Piazza Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2008

Io appartengo a quella generazione - che aveva vent’anni negli anni sessanta - che Chiara Saraceno ha definito della “socializzazione ambivalente”, connotata da discontinuità per il sovrapporsi e il mutare dei modelli di normalità femminile. L’accesso consentito all’istruzione non comportava di per sé nessun progetto emancipazionista forte da parte delle famiglie nei confronti delle ragazze: il “pezzo di carta” conquistato poteva tranquillamente essere messo nel cassetto o al massimo servire per una professione compatibile con il ruolo di moglie e madre. Si trattava quindi di fare un passo più in là per sfuggire all’ideale inoffensivo di emancipata che assicurava il miracolo della compatibilità. Cosa che ho fatto laureandomi prestissimo, andandomene dalla città di provincia veneta dove vivevo, approdando a Milano per seguire la scuola del Piccolo Teatro. Perché il teatro era la mia passione, ma, come risultò abbastanza presto, era solo un “travestimento”, un alibi, basato su quel “desiderio del nuovo, spasmodico, divorante, illegittimo” che Simonetta Piccone Stella considera l’elemento forte di questa generazione di donne, un po’ più grandi dei/delle protagoniste del ’68, ma già trasgressive rispetto ai modelli di normalità. Io volevo “essere nel mondo”, quindi il passo fu dal teatro al sostegno ai movimenti terzomondisti e guerriglieri. Per la Spagna è stata la mia prima manifestazione a Milano: ricordo ancora le cariche della polizia e le ginocchia che mi tremavano. E la politica, il marxismo-leninismo nella versione cinese e maoista, è stata la passione che in quel tempo mi ha catturato. Non c’era spazio ne per me né per il femminile. I “compagni” erano davvero neutri, erano persone con cui facevo un pezzo di strada. Anche perché nel frattempo, forse per non saper reggere la trasgressione su tutti i fronti, mi ero sposata e avevo un bambino e facevo quel lavoro “da donne” – l’insegnamento - che non avevo cercato, ma che mi consentiva di dedicarmi anche ad altro. L’aver fatto tutto “prestissimo” comportava anche una dissonanza tra quello che esteriormente ero (una donna che lavorava, sposata, con un figlio) e ciò che vivevo interiormente: una grande passione, quasi adolescenziale, per i fatti del mondo, della politica, delle trasformazioni sociali.

Così sono arrivata al ’68, che ho vissuto a Roma, alla Sapienza, perché nel frattempo avevo seguito mio marito, trasferito per il suo lavoro. Così andavo alle manifestazioni, cercando di mettermi in posizioni strategiche per evitare le cariche di polizia perché comunque alle quattro e mezzo dovevo andare a prendere mio figlio al nido e non c’era nessuno che potesse farlo per me. Così, dopo la prima manifestazione di Villa Giulia a Roma, arrivai alla scuola dove insegnavo nel turno pomeridiano, alle due del pomeriggio tutta stracciata e con le calze rotte per la gran fuga che avevo fatto giù per la collina, imbastendo improbabili scuse su cadute dall’autobus, perché lì, pur essendo una scuola superiore, la ventata del Sessantotto non era ancora arrivata.

Ma “io c’ero” dentro questa ventata, proprio dentro questo “vento di libertà”: la passione per la politica – che prima era più ideologica e in un certo senso lontana, in altre parti del mondo - si trasformava nella legittimazione sociale a vivere, a pensare, ad amare in un altro modo. Già alcune di noi avevano cominciato a pensarlo, a immaginarlo, a desiderarlo, senza trovare il contesto favorevole. Una ribellione contro le stupidaggini, contro le restrizioni, contro la libertà di scelta. E la sensazione di poter appropriarsi delle cose, anche la presunzione. Ricordo che, portandomi dietro il mio “tesoro” maoista, mi avevano proposto di tenere lezioni alternative sulla Cina, con la presenza come “allievi” anche dei professori più aperti. Dopo la prima “lezione”, ero molto incerta su come continuare e, arrivando di corsa all’università, ho provato un certo sollievo nel vedere le camionette della polizia schierate di fronte e quindi non più la necessità di “dire”, ma quella di “fare” : resistenza, strategie ecc. ecc. Dunque la Sapienza era il mio territorio, magari non in primo piano – non ci sono state molte leader donne nel sessantotto romano come io l’ho vissuto -, ma certamente nelle assemblee di base, negli incontri, nelle discussioni, nei gruppi di lavoro che tenevo con gli “studenti medi”. Nel settembre, sempre per i miei trascorsi terzomondisti, sono stata designata ad andare in Venezuela, come rappresentante del movimento studentesco italiano, al grande incontro degli studenti rivoluzionari latino americani. Lì ho capito che cosa significa “dissonanza”: mentre sapevamo che nei monti sopra Merida era in atto la guerriglia e che tra gli studenti vi erano molti “giovani guerriglieri”, contemporaneamente alle discussioni politiche e alle assemblee (e lì, sotto il ritratto di Che Guevara, avevo fatto il mio primo discorso in spagnolo) si svolgeva anche il concorso per “Miss rivoluzione studentesca”. Ero strabiliata e disgustata. Forse da lì, da lontano, ho cominciato a pensare che se la rivoluzione comportava anche l’elezione di una miss, c’era qualcosa che non funzionava, che forse ci aspettavano altre battaglie, ancora più coinvolgenti. E per la prima volta ho capito che c’era una distanza, che allora non riuscivo a decifrare e che solo più tardi sarei riuscita a interpretare. E che la propria vita, non l’ideologia, non la politica in senso stretto, era messa in gioco.



(26 febbraio 2008)

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