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Il mio '68 di Giancarla Codrignani

Il mio '68 di Giancarla Codrignani

1968/2008 - "Prima c'erano stati i Beatles. Fu la prima contraddizione. Fu dura indurre un amico che allora mi interessava a leggere i testi delle canzoni per capirle. Si percepiva molta insofferenza, anche dentro di noi..."

Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2008

Prima c'erano stati i Beatles. Fu la prima contraddizione. Fu dura indurre un amico che allora mi interessava a leggere i testi delle canzoni per capirle.



Si percepiva molta insofferenza, anche dentro di noi: tutti stufi di leggere cose stimolanti di una cultura che chiamavamo di sinistra, senza riuscire a schiodare gli standard riduttivi del vivere democristiano. La sinistra più esigente e, riconosciamolo, abbastanza viscerale veniva definita "extraparlamentare" e sembrava pericolosa anche ai comunisti: diventerà pericolosa anche perché le fu fatto muro contro. Poi entrarono in agitazione le università americane e, con loro, le università di quasi tutti i paesi, compresa Praga, anticipazione di una volontà innovativa da reprimere. Anche in Italia il "maggio francese” e l'illusione che fosse "la rivoluzione" animarono gli studenti, che subito



fecero "movimento", "occuparono" gli istituti e riempirono le piazze contro il democristiano Guy, ministro della Pubblica Istruzione.



Mio padre era contento che i giovani avessero ancora "spirito rivoluzionario". Io insegnavo latino e greco a Reggio Emilia e, come tutti, non sapevo che stavo vivendo il mitico Sessantotto. Alla Statale di Milano era stata contestata la Divina Commedia e al Liceo Ariosto Omero e Virgilio non erano il massimo del gradimento studentesco: quando consentii a interrogare su Marcuse invece che su Euripide e tutti preferirono studiarsi il greco, rimasi meravigliata per un'autorità riconfermata con poco. Con i colleghi non c'era accordo: non capivano che l'oggettività del voto e il nozionismo erano arretratezza in un tempo che per i giovani sarebbe diventato professionalmente e socialmente complesso. Ci inventammo di sostituire le "versioni in classe" (ricordate quando ce le davano da tradurre e noi tentavamo di copiare o di far copiare, mentre il ‘prof’ faceva il poliziotto?) con traduzioni di gruppo in biblioteca, consegnate in redazione collettiva con a margine le note di chi non condivideva. Imparai che non è vero che i più bravi si impongono, ma, anzi, spesso si adeguano anche al peggio. Mi venne in mente anche dopo, a Montecitorio.



Ma non c'era solo la scuola.



C'era il Vietnam. Difficile oggi rendersi conto della consapevolezza delle cosiddette "masse" che, contro la guerra scatenata su un popolo analfabeta e contadino che difendeva la sua autonomia, riempivano le piazze e le assemblee nelle fabbriche. Fu un'altra occasione per aprire gli occhi e, forse come correttivo alla mia passione per l'antichità, studiare i problemi del mondo: il versante più fallimentare del socialismo fu, infatti, a mio giudizio, l'"internazionalismo". C'erano anche gli slogan. Belli:"l'immaginazione al potere", "fate l'amore, non la guerra". O inquietanti: "Dio è morto". Davvero un certo dio era morto e il Papa buono, Giovanni XXIII, se ne era accorto e, con i "segni dei tempi" (l'avanzamento sociale della classe operaia, delle donne, del popoli del Sud del mondo), aveva riorientato lo sguardo dei credenti. Molti, intellettuali e no, capivano che "anche Marx non stava troppo bene". Ma dominava l'assunzione dogmatica, come se Marx non fosse morto nel 1883 e non si morisse a Praga: in un circolo della sinistra extraparlamentare un lavoratore sostenne che "se un cecoslovacco si rivoltava contro il comunismo perché non possedeva la macchina, allora era meglio il capitalismo che gliela dava". Spunti ancor oggi attuali.



Infine le donne. Erano, forse, le più interessate ai cambiamenti; certamente erano le più comprensive con le ragioni dei figli che contestavano la scuola. Ma incominciavano anche a sentire - leggete i numeri di Noi donne dell'epoca - che la società non andava da nessuna parte se restava al palo della tradizione: le stesse nel 1974 difenderanno il divorzio per la propria dignità. Le più giovani sostenevano le lotte studentesche e le esperienze trasgressive delle "comuni": "uguali" ai



maschi, anche se di fatto erano usate e, anche in "Lotta continua" o nel "Potop", gli "angeli del ciclostile" il "potere" se lo sognavano. Quarant'anni fa. Siamo certamente cambiati; non solo individualmente, ma come società. In positivo (siamo diventati europei con una moneta comune,



il benessere è maggiore, le nuove tecnologie hanno cambiato le comunicazioni, ci sono i cellulari, le staminali potranno riparare i guasti del nostro corpo), ma anche in negativo (il lavoro è diventato precario, siamo pienamente consumisti, accettiamo la più becera alienazione televisiva, disconosciamo le regole del vivere civile, regaliamo ai figli delle play station violente che insegnano a uccidere senza soffrire). Ma domina il rimpianto di "quando c'erano le passioni". Sarò illuminista, ma se erano illusorie, meglio averle perdute. Infatti gli ideali e i principi restano il punto di riferimento, ma conta di più studiare e progettare per fare migliore il futuro. Come donne, la storia delle passioni la conosciamo bene e, quando mettiamo in piedi una famiglia, sappiamo che bisogna darsi da fare con le possibilità concrete. Adesso è il tempo di fare lo stesso con la società che vogliamo prendere in custodia: non vorremo mica che, se ci sono dei posti per noi, non siamo in grado di riempirli del nostro linguaggio e delle nostre proposte?



Forse, come dice Anna Finocchiaro (Unità, 12/12/07), "sta cominciando la nostra era "Gli uomini sono un genere esausto: sono ricchi di un'esperienza millenaria, ma hanno già dato. Se si valuta per meriti e competenze vincono le donne".







(29 gennaio 2008)

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