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Il mio '68 di Carla Ravaioli

Il mio '68 di Carla Ravaioli

1968/2008 - "E’ stato un fenomeno di enorme portata culturale e politica, una vera cesura nella storia recente, che muove dalla rivolta antipaterna, per allargare poi la lotta contro tutti i “padri” privati e pubblici..."

Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2008

“E’ stato un fenomeno di enorme portata culturale e politica, una vera cesura nella storia recente, che muove dalla rivolta antipaterna, per allargare poi la lotta contro tutti i “padri” privati e pubblici, tutti i garanti della norma, fino a rimettere in causa tutte le gerarchie, familiare, scolastica, sessuale, religiosa”. Carla Ravaioli, giornalista e saggista, individua negli anni del boom economico le radici di questi fatti. “Il ‘68 è stato preceduto, e determinato, da un grande mutamento sociale economico culturale. Era un periodo di forte e crescente espansione economica, che esigeva un sempre più ampio bacino di consumatori. Ciò che oggettivamente, nonostante iniquità e sfruttamenti, è andato migliorando le condizioni delle classi popolari. L’automobile, la Tv, il frigorifero, la lavatrice, entrano in tutte le case, il consumismo s’impone”. Il progresso tecnologico e gli elettrodomestici hanno però migliorato la vita di milioni di persone. “Non c’è dubbio, ma prima ancora che per la loro innegabile utilità, tutti questi oggetti si sono imposti come simboli, e l’identificazione con il consumo in quanto tale ha determinato una vera e propria mutazione antropologica, tuttora in atto. D’altronde nel primo trentennio del dopoguerra molti fatti hanno indotto una evoluzione largamente positiva nelle società occidentali: l’aumento della scolarità innanzitutto, una maggiore mobilità sia verticale sia orizzontale. Le maggiori disponibilità economiche d’altronde facilitano i viaggi e ciò significa entrare in contatto con realtà umane completamente diverse dalla propria, e quindi anche rimettere in discussione antiche certezze. In tutto ciò un contributo molto positivo è venuto dalla televisione”. Il ’68 ha cambiato anche codici di comportamento, prima molto rigidamente fissati. “Non c’è dubbio, e sempre nel rifiuto dell’ordine dato. Basti pensare al modo di vestire, jeans minigonne giacconi, impostisi come simbolo di libertà per tutti, e divenuti poi pezzi normali del nostro guardaroba. E penso a quanto è cambiato il linguaggio, all’ uso ormai normale di ‘parolacce’ che nessuno mai prima si permetteva di dire, e che oggi sono pronunciate liberamente, anche da parte di persone rispettabilissime: parole addirittura ormai consumate dall’uso, che hanno perso il loro significato trasgressivo”. Ravaioli vede anche un forte rapporto tra il ‘68 e il mondo del lavoro. “E’ stato un rapporto determinante, e non poteva essere diversamente: il rifiuto e la messa sotto accusa di tutte le gerarchie non poteva non riguardare anche quella che è la gerarchia fondante della nostra società, il rapporto tra capitale e lavoro. Non è un caso che proprio in quegli anni si siano verificati momenti di grandi lotte operaie, il “maggio” francese, l’”autunno caldo” italiano, e tanti altri, che sempre hanno visto una larga partecipazione studentesca. Sono state lotte molto spesso vincenti in rapporto a problemi concreti, come aumenti salariali, riduzioni degli orari di lavoro, ecc., ma anche su altre tematiche. In Italia ad esempio le “150 ore” hanno significato la conquista di uno spazio prima precluso agli operai: il diritto di accedere a saperi diversi da quelli legati alla loro attività. Sono state conquiste che hanno continuato a segnare in qualche misura il mondo del lavoro, anche quando tutto ciò è stato bloccato da una dura battuta d’arresto (pensiamo alla marcia dei 35.000 alla Fiat) poi addirittura si è avviata una pesante involuzione”. Però ci sono state reazioni negative nella società, e ancora oggi non è condivisa una valutazione positiva dei significati profondi di quello che avvenne in quegli anni. “Se ancora si continua a celebrare il ’68, o comunque a parlarne, in positivo o in negativo, vuol dire che non si è trattato di cosa da nulla. Certo la messa in discussione dell’ordine costituito talora ha innescato violenze. Non si possono però dimenticare le stragi di Stato, anche se indubbiamente la deriva terroristica è stata una risposta tragicamente sbagliata, assolutamente inaccettabile. Ma il ‘68 di per sé non era violento. Era piuttosto la messa sotto accusa di antiche violenze, in qualche modo subite come “naturali”. Tra l’altro è stato allora infatti che le donne hanno scoperto che potevano mettere in discussione il rapporto con il maschio storicamente definito e codificato, dalle stesse masse femminili tradizionalmente accettato e magari strumentalizzato, nella ricerca di una “sistemazione” che - essendo di norma l’uomo l’unico produttore di reddito - poteva essere solo il matrimonio. E il crescente accesso delle donne al lavoro appunto in quegli anni favoriva questa presa di coscienza”. Proprio nel 1968 Carla Ravaioli in “La donna contro se stessa” faceva un’analisi della condizione delle donne dal punto di vista culturale e psicologico anticipando molte tematiche del femminismo. Le sue opere degli anni seguenti si orientano sempre più verso problemi socio-economici (come in “Il quanto e il quale. La cultura del mutamento”, del 1982) poi verso la questione ambientale e il suo rapporto con economia e politica (come, tra l’altro, in “Ambiente e pace una sola rivoluzione - Disarmare l’Europa per salvare il futuro”, da poco edito da Punto Rosso). Insomma donne, lavoro, pace, politica si fondono nel lavoro teorico della Ravaioli. “In effetti, secondo me, tutto si tiene, c’è sempre una reciprocità di determinazione tra problematiche diverse. Ma oggi è l’economia l’asse portante dell’intera realtà mondiale ed è il termine di riferimento di qualsiasi scelta e giudizio di valore. E proprio l’economia è responsabile del tremendo collasso dell’ambiente cui stiamo assistendo: infatti il capitalismo, oggi vincente in tutto il mondo, si fonda sull’accumulazione, cioè sulla crescita esponenziale della produzione e del consumo. Ma il nostro pianeta ha dei limiti precisi, e non è in grado di alimentare una produzione in continuo aumento, né di neutralizzare i rifiuti, solidi, liquidi, gassosi, che ne derivano. Di qui inquinamenti, alluvioni, desertificazioni, clima impazzito, poli che si sciolgono…la crisi ecologica planetaria… Ridurre, o addirittura fermare la crescita produttiva, dice la scienza di tutto il mondo. E - mentre incredibilmente economisti e politici continuano a invocare crescita - molti ormai parlano di decrescita. Certo, non è facile: da dove incominciare?Incominciare dalle armi, che (a parte la loro specifica funzione distruttiva e assassina) rappresentano una cospicua quota della produzione mondiale, tanto che quando l’economia non “tira” si inventa una nuova guerra per rimetterla in moto. Incominciare a disarmare l’Europa: non può essere un’idea?che tra l’altro affronta due obbiettivi diversi, ma in realtà molto vicini, come ambiente e pace?”. Quella che Ravaioli propone è una autentica rivoluzione. Ma su chi possiamo contare per questa inversione di marcia? “Io credo che, se la gente fosse adeguatamente informata, non pochi sarebbero d’accordo. E credo che le donne potrebbero molto. Dopotutto storicamente i ruoli sessuali hanno attribuito il “produrre” ai maschi e il “riprodurre” alle femmine; proprio le donne avrebbero dunque ragione di combattere una società definita dal dominio del produrre, è da loro che potrebbe partire la spinta di un profondo cambiamento. Certo, per ora nulla del genere sta accadendo. Per lo più le donne che aspirano a inserirsi nel ‘sistema lavoro’ tendono ad assumere comportamenti e mentalità maschili, spesso ahimé senza abbandonare atteggiamenti seduttivi, magari da strumentalizzare nella scalata al successo, secondo la più trita e meno apprezzabile tradizione femminile”. Questa è la critica che viene fatta alle donne che raggiungono posti di potere, politico o altro che sia. “Critica spesso non infondata. Le donne dovrebbero fare un’analisi seria dello scotto che pagano per fare carriera. E capire che certi metodi nulla hanno a che fare con la libertà cui giustamente aspirano. Allora davvero forse troverebbero la forza di cambiare il mondo. Magari incominciando a salvarlo dalla catastrofe ambientale …”



 







(4 novembre 2008)

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