Il magico “momento” della Liberazione nel racconto della partigiana Cecilia
Festeggiare il giorno della Liberazione del nostro paese dal nazifascismo significa anche rivivere il passaggio da un “prima” e un “dopo” vissuto da migliaia di donne e uomini che hanno lottato
Lunedi, 20/04/2020 - Il 25 aprile, anniversario della Liberazione, è una delle date collettive più importanti per le donne e gli uomini di questo paese. Perché significa ricordare la radice e l’identità stessa della nostra preziosa democrazia. Per questo, guai a chi vorrebbe annullarla o sbiadirla con trovate vergognose. Non ci sarebbe questa nostra Costituzione, questa nostra democrazia, senza quella Liberazione.
Ma la Liberazione del nostro paese dal nazifascismo è stato anche un “momento” concreto, vissuto da migliaia e migliaia di donne e uomini, un passaggio tra un prima e un dopo. Anche a livello personale. Non si può parlare di Liberazione senza parlare anche di libertà fisica riconquistata, libertà di territori occupati e sottoposti ad angherie e stragi.
Quel momento è stato gioia, orgoglio, fine di paure, di detenzioni ingiuste e terribili per le condizioni e le torture subite, momento atteso, quasi con certezza, come ci hanno detto tante donne e tanti uomini parlando della loro Resistenza, perché “ci si sentiva dalla parte giusta”. Questa forza e fiducia nello stesso tempo ancora fa salire i brividi nella schiena e deve interrogare ancora oggi.
E per uscire da retoriche o finte antiretoriche sul significato del 25 Aprile ho scelto di cercare, grazie al prezioso Archivio storico di NOIDONNE, parole che restituissero a noi donne di oggi il significato concreto di “quel momento” di liberazione.
A raccontare è “Cecilia” ( ome vero o di battaglia o semplicemente il viversi come una delle tante?) nel primo numero di NOIDONNE uscito in Piemonte nel giugno del 1945, dopo ben due lunghi anni di eroica produzione di versioni clandestine diffuse in tutte le regioni del Centro Nord occupate e impegnate nella guerra partigiana. Il significato storico e politico dell’ uscita di quel NOIDONNE finalmente “libero” viene spiegato in modo sintetico nell’ editoriale di apertura: “Noi Donne è la rivista dell’UDI, è la rivista delle donne che oggi stanno creando un movimento di unione per risolvere i loro problemi, rivendicare i loro diritti, difendere i loro interessi e contribuire alla ricostruzione economica, sociale e politica generale”.
Cecilia racconta i momenti del suo arresto e della sua "Liberazione” con stile pacato e semplice:
“Un giovane mi aveva portata da Novara a Vercelli in bicicletta. Ero intirizzita di freddo quando entrati in un caffè per prendere un vermout; un milite della brigata nera mi chiese i documenti e mi investì di domande: la mia testa scapigliata, la mia borsa gonfia gli avevano fatto capire che venivo da fuori. Uscendo dal caffè mi accorgo che sono in corso i rastrellamenti. Circa all’una pomeridiana due brutte facce di briganti neri vengono ad arrestare il giovane Maliverni. Fanno una perquisizione e non trovano niente. Penso di andarmene da quella casa ma mi consigliano dii restare. In quella camera l’aria era divenuta pesante; decisi di uscire ma fui nuovamente fermata e interrogata. Un dubbio mi assale: sono indiziata? Dove ritirarmi? Meglio è non compromettere altri; e malinconicamente ritorno a casa del Maliverni. Non appena entro un ufficiale della brigata nera punta verso di me un fucile, un altro mi dice di alzare le mani.
Mi perquisiscono e insieme con altri giovani mi portano in caserma. Entro nella camera di raduno degli ufficiali a testa alta. 'E’ l’amante tradita di un propagandista antinazionale' dice uno degli accompagnatori. E’ inutile trascrivere i commenti e i motti che seguirono. Poi mi conducono nella camera di sicurezza, dove trovo altre quattro donne sulla paglia: ostaggi. Per tutta la notta non chiusi occhio: perché mi preparavo all’interrogatorio che avrei dovuto subire se avessero scoperto il doppio fondo della mia borsa. Una forte agitazione mi faceva sentire freddo e quella notte fu eterna. L’indomani due militi vengono a prendermi; dal loro comportamento capisco che c’è qualcosa di grave e infatti non appena entro nell’ufficio di Vaghi vedo la borsa. Mi ricevono con una esplosione di parolacce: avevano trovato i miei documenti falsi, la mia relazione fatta il giorno prima, dei manifestini, una lettera del comandante della divisione 'Antonio Gramsci', un distintivo falce e martello con la stella. L’indirizzo di un recapito che non potevano decifrare perché siglato ed altro vario materiale. Chiamano un’ausiliaria perché mi svesta e la incitano a picchiarmi: “Mi sporcherei le mani, per questa gentaglia, si deve adoperare il mitra”. Il primo interrogatorio fu aspro e duro, accompagnato da botte e punzecchiature col pugnale, al fianco destro e al cuore. Mi dicevano che domani all’alba mi avrebbero fucilata. Vaghi dice: per fare parlare questa disgraziata bisogna adoperare altri mezzi. Mi portarono in camera di sicurezza. Il pomeriggio continua l’interrogatorio ma non riescono a sapere altro che il nome di due individui creati dalla mia fantasia; del materiale dico di non sapere nulla, perchè non sono che una staffetta. Ebbi altri tre interrogatori. Il 28 febbraio mi riportarono in questura e poi nel carcere. Entrai nel carcere sorridendo: pensavo che quelle porte di ferro presto per volontà dei partigiani si sarebbero aperte. Era già penombra quando mi condussero in cella: i miei occhi non abituati non vedono nulla, sento però un forte abbraccio di una giovane, una biellese. Ero attesa. Trovai due compagne di Biella che conoscevo e mi sentii meno a disagio. C’erano sei brande. Le compagne mi informarono che avevano la compagnia di pidocchi e cimici. Per me non c’era la branda ma la giovane unì due brande e dormimmo in tre. I primi giorni furono lunghi e tristi: la privazione di notizie mi rendeva nervosa, ma poi a mezzo della guardiana ebbi contatti con i compagni di fuori e la vita divenne meno dura. Il 26 marzo ricevetti la prima lettera di mia madre. Discussioni politiche purtroppo se ne potevano fare poche perché c’era con noi una ladra , moglie di un milite della brigata nera e poi perché era difficile discutere. ll 24 aprile per un cambio vanno a casa due compagne. Il giorno dopo una lieta notizia: i partigiani hanno occupato Biella, dice una donna tornata dall’interrogatorio. Dalla felicità non si sta più ferme, si cantano le canzoni partigiane. Nella notte attendiamo la liberazione e perciò non si dorme. Il mattino seguente sappiamo che i partigiani sono alla periferia di Vercelli. Viviamo in un’ansia febbrile: ad ogni rumore corriamo ad aggrapparci alle sbarre della finestra. I cancelli non sono più chiusi: possiamo passeggiare nello stretto corridoio. Alle 13 scendiamo nel piccolo cortiletto delle galline per prendere aria. Poco dopo sentiamo la voce dei giovani partigiani prigionieri che vogliono impadronirsi della mitragliatrice e dei fucili. Il sottocapo si oppone, sta per avvenire una mischia ed il capo telefono alla Questura. Questa da l’ordine di aprire le porte ai prigionieri politici”.
Era appunto il 25 aprile del 1945 e per Cecilia la sua liberazione era speciale perché significava la tanto attesa Liberazione del Paese. E lei non aveva dubbi che potesse avvenire.
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