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Il lungo cammino del diritto al voto

Il lungo cammino del diritto al voto

1946, la nostra prima volta - In occasione del 60° anniversario del voto alle donne un approfondimento storico

Caterina Liotti Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2006

Le nuove istituzioni e la classe dirigente antifascista furono chiamate alla fine della guerra a riscrivere le regole che nella cittadinanza repubblicana coniugassero l’espressione dei diritti civili e politici della tradizione liberale con l’introduzione dei doveri sociali propri della cultura democratica, volta a impegnare le istituzioni nel rispondere ai bisogni materiali dei cittadini e nel difendere la dignità umana di ciascuno.
Sul diritto di voto alle donne De Gasperi e Togliatti concordavano: Pci e Dc miravano a radicarsi nella nuova democrazia quali partiti di massa facendo della costruzione del consenso una prospettiva strategica; anche se poi le basi dei partiti restavano più diffidenti circa la crucialità dell’ingresso delle donne nella vita politica.
Nell’ottobre del 1944 la Commissione per il voto alle donne dell’Udi si era recata dal presidente del Consiglio Bonomi “per esprimergli la necessità che venga concesso alle grandi masse femminili il diritto di partecipare alle elezioni amministrative. Il presidente del Consiglio ha assicurato le delegate di tutto il suo interessamento per questa importante questione” (Noi donne, 25 ottobre 1944). L’Udi inoltre avvia la sottoscrizione “da far firmare dal maggior numero di donne possibile” al fine di richiedere al Governo di Liberazione Nazionale il diritto di voto e di eleggibilità.
Di un’altra mozione si ha notizie da “Noi Donne” del 15 novembre 1944 firmata dalle rappresentanze dei centri femminili del Partito liberale, Democratico cristiano, Democratico del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, partito comunista italiano per chiede che le donne possano partecipare alle elezioni amministrative “su un piano di assoluta parità con gli uomini”.
Le donne dei diversi partiti preparano anche la “settimana per il voto alle donne” per promuovere la firma della petizione lanciata dall’Udi (“Noi Donne”, 15 novembre 1944).
Si formerà il Comitato nazionale pro-voto che unisce: Udi, centri femminili del Partito liberale, Democratico cristiano, Democratico del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, Partito comunista italiano, Partito repubblicano, Sinistra Cristiana, le associazioni femminili Alleanza “pro suffragio” e la Federazione donne laureate e diplomate (“Noi Donne”, 15 gennaio 1945).
Così il 31 gennaio 1945 fu emesso il decreto legislativo luogotenenziale che sancì il suffragio universale, pubblicato il 1° febbraio. Nel decreto non è però prevista l’eleggibilità delle donne, che sarà sancita solo dal decreto n. 74 del 10 marzo 1946: “Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea costituente” il cui articolo 7 recita “Sono eleggibili all’Assemblea Costituente i cittadini e le cittadine italiane che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il 25° anno di età”.
La prima volta che le donne poterono esercitare il loro diritto elettorale, attivo e passivo, fu in occasione delle elezioni amministrative, nel modenese le donne votarono per la prima volta il 31 marzo 1946. La partecipazione alle urne fu altissima.
In attesa del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 che avrebbe decretato la scelta repubblicana (circa 12.700.000 voti a favore, quasi due milioni in più dei sostenitori della monarchia) e che avrebbe formato la Costituente (per scrivere la Costituzione), nell’aprile 1945 si era istituita la Consulta, un’assemblea eccezionale e transitoria, che ebbe come principale compito quello di elaborare una legge elettorale per l’Assemblea costituente. La Consulta si riunirà per la prima volta il 25 settembre 1945.
La Consulta fu quindi il primo organismo politico nazionale in cui entrarono donne: 13 donne (10 dell’Udi), invitate direttamente dai partiti. Tra queste donne vi era l’operaia Abele Bei, la maestra Clementina Galigaris, la sarta Rina Picolato e la democristiana Angela Guidi Cingolani. E proprio di quest’ultima un articolo datato 15 ottobre 1945 di “Noi donne” riporta un intervento di risposta alla mancanza di fiducia che le donne da sempre riscontravano tra i politici: “peggio di quello che nel passato hanno saputo fare gli uomini, le donne certo non potranno fare mai”.
Rina Picolato, sarta di Torino, organizzatrice dei Gdd scrive sulle pagine di “Noi Donne” del 31 agosto 1945: “[…] le donne porteranno un contributo concreto alle riunioni della Consulta, sollevando e discutendo i problemi dell’infanzia, della scuola, i problemi così complessi dell’assistenza, quello gravissimo dell’alimentazione. […] le donne hanno già dimostrato di essere capaci di assolvere compiti difficili di responsabilità. […] sono certa che esse potranno tenere il loro posto ed assolvere i loro compiti in modo pari a quello degli uomini anche in questo massimo organo governativo”.
(10 marzo 2006)

* Presidente Centro documentazione donna di Modena

Secoli di negazione
I motivi per cui a lungo si negò il voto alle donne risalgono già ai provvedimenti del Comitato di salute pubblica del 1793, per il quale: “Le donne sono poco capaci di concezioni elevate, di meditazioni serie, e la loro naturale esaltazione sacrificherebbe sempre gli interessi dello stato a tutto ciò che di disordinato può produrre la vivacità delle passioni”.
Così come nella Francia napoleonica, anche nelle Repubbliche giacobine italiane e poi nell’Italia unita l’emotività femminile viene letta come elemento turbativo del nuovo assetto istituzionale e sociale. La prima petizione a favore del suffragio femminile è inviata al Parlamento italiano nel 1881 da un gruppo che si definiva “cittadine italiane”: sono le donne lombarde che con l’estensione del Codice Albertino si erano viste negare, come pure le donne toscane, un diritto già acquisito.
Nel 1888 è l’intervento personale di Crispi alla Commissione parlamentare che si occupava delle riforme amministrative che determina l’esclusione delle donne dall’elettorato. Altre date significative sono il 1906, quando Anna Maria Mozzoni promuove la petizione del Comitato nazionale pro-suffragio femminile, e il 1907, anno in cui si istituisce la Commissione ministeriale che impiegò poi cinque anni per esprimere parere negativo sulla concessione dei diritti amministrativi e politici alle donne.
L’8 marzo 1919 la Camera dei deputati decide sul voto alle donne: 292 deputati favorevoli, 42 contrari. Il 3 settembre si apre la discussione sul disegno di legge presentato in luglio dalla Commissione presieduta da Gasparotto ed entro lo stesso mese si decide: voto alle donne a partire dalla legislazione successiva, con l’esclusione però delle prostitute. Il progetto di legge non poté essere approvato anche dal Senato, a causa dello scioglimento anticipato delle Camere.
E’ del novembre 1925 la legge n. 2125 presentata da Mussolini, relativa alla ammissione delle donne all’elettorato amministrativo. L’elettrice doveva avere 25 anni (gli uomini 21), per esercitare il diritto di voto doveva farne esplicita domanda, doveva appartenere ad alcune specifiche categorie (decorate, madri e vedove dei caduti in guerra, benemerite pubbliche) e dovevano versare almeno 100 lire annue di contributi comunali.
Nel luglio 1926 l’abolizione degli organismi rappresentativi locali chiude ogni discussione sui diritti politici, non solo femminili.











Per ricordare
Il lungo cammino del diritto al voto
Caterina Liotti, presidente Centro documentazione donna di Modena

Brevi note storiche anche attraverso l’archivio di “Noi Donne”


Le nuove istituzioni e la classe dirigente antifascista furono chiamate alla fine della guerra a riscrivere le regole che nella cittadinanza repubblicana coniugassero l’espressione dei diritti civili e politici della tradizione liberale con l’introduzione dei doveri sociali propri della cultura democratica, volta a impegnare le istituzioni nel rispondere ai bisogni materiali dei cittadini e nel difendere la dignità umana di ciascuno.
Sul diritto di voto alle donne De Gasperi e Togliatti concordavano: Pci e Dc miravano a radicarsi nella nuova democrazia quali partiti di massa facendo della costruzione del consenso una prospettiva strategica; anche se poi le basi dei partiti restavano più diffidenti circa la crucialità dell’ingresso delle donne nella vita politica.
Nell’ottobre del 1944 la Commissione per il voto alle donne dell’Udi si era recata dal presidente del Consiglio Bonomi “per esprimergli la necessità che venga concesso alle grandi masse femminili il diritto di partecipare alle elezioni amministrative. Il presidente del Consiglio ha assicurato le delegate di tutto il suo interessamento per questa importante questione” (Noi donne, 25 ottobre 1944). L’Udi inoltre avvia la sottoscrizione “da far firmare dal maggior numero di donne possibile” al fine di richiedere al Governo di Liberazione Nazionale il diritto di voto e di eleggibilità.
Di un’altra mozione si ha notizie da “Noi Donne” del 15 novembre 1944 firmata dalle rappresentanze dei centri femminili del Partito liberale, Democratico cristiano, Democratico del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, partito comunista italiano per chiede che le donne possano partecipare alle elezioni amministrative “su un piano di assoluta parità con gli uomini”.
Le donne dei diversi partiti preparano anche la “settimana per il voto alle donne” per promuovere la firma della petizione lanciata dall’Udi (“Noi Donne”, 15 novembre 1944).
Si formerà il Comitato nazionale pro-voto che unisce: Udi, centri femminili del Partito liberale, Democratico cristiano, Democratico del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, Partito comunista italiano, Partito repubblicano, Sinistra Cristiana, le associazioni femminili Alleanza “pro suffragio” e la Federazione donne laureate e diplomate (“Noi Donne”, 15 gennaio 1945).
Così il 31 gennaio 1945 fu emesso il decreto legislativo luogotenenziale che sancì il suffragio universale, pubblicato il 1° febbraio. Nel decreto non è però prevista l’eleggibilità delle donne, che sarà sancita solo dal decreto n. 74 del 10 marzo 1946: “Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea costituente” il cui articolo 7 recita “Sono eleggibili all’Assemblea Costituente i cittadini e le cittadine italiane che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il 25° anno di età”.
La prima volta che le donne poterono esercitare il loro diritto elettorale, attivo e passivo, fu in occasione delle elezioni amministrative, nel modenese le donne votarono per la prima volta il 31 marzo 1946. La partecipazione alle urne fu altissima.
In attesa del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 che avrebbe decretato la scelta repubblicana (circa 12.700.000 voti a favore, quasi due milioni in più dei sostenitori della monarchia) e che avrebbe formato la Costituente (per scrivere la Costituzione), nell’aprile 1945 si era istituita la Consulta, un’assemblea eccezionale e transitoria, che ebbe come principale compito quello di elaborare una legge elettorale per l’Assemblea costituente. La Consulta si riunirà per la prima volta il 25 settembre 1945.
La Consulta fu quindi il primo organismo politico nazionale in cui entrarono donne: 13 donne (10 dell’Udi), invitate direttamente dai partiti. Tra queste donne vi era l’operaia Abele Bei, la maestra Clementina Galigaris, la sarta Rina Picolato e la democristiana Angela Guidi Cingolani. E proprio di quest’ultima un articolo datato 15 ottobre 1945 di “Noi donne” riporta un intervento di risposta alla mancanza di fiducia che le donne da sempre riscontravano tra i politici: “peggio di quello che nel passato hanno saputo fare gli uomini, le donne certo non potranno fare mai”.
Rina Picolato, sarta di Torino, organizzatrice dei Gdd scrive sulle pagine di “Noi Donne” del 31 agosto 1945: “[…] le donne porteranno un contributo concreto alle riunioni della Consulta, sollevando e discutendo i problemi dell’infanzia, della scuola, i problemi così complessi dell’assistenza, quello gravissimo dell’alimentazione. […] le donne hanno già dimostrato di essere capaci di assolvere compiti difficili di responsabilità. […] sono certa che esse potranno tenere il loro posto ed assolvere i loro compiti in modo pari a quello degli uomini anche in questo massimo organo governativo”.

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Secoli di negazione
I motivi per cui a lungo si negò il voto alle donne risalgono già ai provvedimenti del Comitato di salute pubblica del 1793, per il quale: “Le donne sono poco capaci di concezioni elevate, di meditazioni serie, e la loro naturale esaltazione sacrificherebbe sempre gli interessi dello stato a tutto ciò che di disordinato può produrre la vivacità delle passioni”.
Così come nella Francia napoleonica, anche nelle Repubbliche giacobine italiane e poi nell’Italia unita l’emotività femminile viene letta come elemento turbativo del nuovo assetto istituzionale e sociale. La prima petizione a favore del suffragio femminile è inviata al Parlamento italiano nel 1881 da un gruppo che si definiva “cittadine italiane”: sono le donne lombarde che con l’estensione del Codice Albertino si erano viste negare, come pure le donne toscane, un diritto già acquisito.
Nel 1888 è l’intervento personale di Crispi alla Commissione parlamentare che si occupava delle riforme amministrative che determina l’esclusione delle donne dall’elettorato. Altre date significative sono il 1906, quando Anna Maria Mozzoni promuove la petizione del Comitato nazionale pro-suffragio femminile, e il 1907, anno in cui si istituisce la Commissione ministeriale che impiegò poi cinque anni per esprimere parere negativo sulla concessione dei diritti amministrativi e politici alle donne.
L’8 marzo 1919 la Camera dei deputati decide sul voto alle donne: 292 deputati favorevoli, 42 contrari. Il 3 settembre si apre la discussione sul disegno di legge presentato in luglio dalla Commissione presieduta da Gasparotto ed entro lo stesso mese si decide: voto alle donne a partire dalla legislazione successiva, con l’esclusione però delle prostitute. Il progetto di legge non poté essere approvato anche dal Senato, a causa dello scioglimento anticipato delle Camere.
E’ del novembre 1925 la legge n. 2125 presentata da Mussolini, relativa alla ammissione delle donne all’elettorato amministrativo. L’elettrice doveva avere 25 anni (gli uomini 21), per esercitare il diritto di voto doveva farne esplicita domanda, doveva appartenere ad alcune specifiche categorie (decorate, madri e vedove dei caduti in guerra, benemerite pubbliche) e dovevano versare almeno 100 lire annue di contributi comunali.
Nel luglio 1926 l’abolizione degli organismi rappresentativi locali chiude ogni discussione sui diritti politici, non solo femminili.




Per ricordare
Il lungo cammino del diritto al voto
Caterina Liotti, presidente Centro documentazione donna di Modena

Brevi note storiche anche attraverso l’archivio di “Noi Donne”


Le nuove istituzioni e la classe dirigente antifascista furono chiamate alla fine della guerra a riscrivere le regole che nella cittadinanza repubblicana coniugassero l’espressione dei diritti civili e politici della tradizione liberale con l’introduzione dei doveri sociali propri della cultura democratica, volta a impegnare le istituzioni nel rispondere ai bisogni materiali dei cittadini e nel difendere la dignità umana di ciascuno.
Sul diritto di voto alle donne De Gasperi e Togliatti concordavano: Pci e Dc miravano a radicarsi nella nuova democrazia quali partiti di massa facendo della costruzione del consenso una prospettiva strategica; anche se poi le basi dei partiti restavano più diffidenti circa la crucialità dell’ingresso delle donne nella vita politica.
Nell’ottobre del 1944 la Commissione per il voto alle donne dell’Udi si era recata dal presidente del Consiglio Bonomi “per esprimergli la necessità che venga concesso alle grandi masse femminili il diritto di partecipare alle elezioni amministrative. Il presidente del Consiglio ha assicurato le delegate di tutto il suo interessamento per questa importante questione” (Noi donne, 25 ottobre 1944). L’Udi inoltre avvia la sottoscrizione “da far firmare dal maggior numero di donne possibile” al fine di richiedere al Governo di Liberazione Nazionale il diritto di voto e di eleggibilità.
Di un’altra mozione si ha notizie da “Noi Donne” del 15 novembre 1944 firmata dalle rappresentanze dei centri femminili del Partito liberale, Democratico cristiano, Democratico del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, partito comunista italiano per chiede che le donne possano partecipare alle elezioni amministrative “su un piano di assoluta parità con gli uomini”.
Le donne dei diversi partiti preparano anche la “settimana per il voto alle donne” per promuovere la firma della petizione lanciata dall’Udi (“Noi Donne”, 15 novembre 1944).
Si formerà il Comitato nazionale pro-voto che unisce: Udi, centri femminili del Partito liberale, Democratico cristiano, Democratico del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, Partito comunista italiano, Partito repubblicano, Sinistra Cristiana, le associazioni femminili Alleanza “pro suffragio” e la Federazione donne laureate e diplomate (“Noi Donne”, 15 gennaio 1945).
Così il 31 gennaio 1945 fu emesso il decreto legislativo luogotenenziale che sancì il suffragio universale, pubblicato il 1° febbraio. Nel decreto non è però prevista l’eleggibilità delle donne, che sarà sancita solo dal decreto n. 74 del 10 marzo 1946: “Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea costituente” il cui articolo 7 recita “Sono eleggibili all’Assemblea Costituente i cittadini e le cittadine italiane che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il 25° anno di età”.
La prima volta che le donne poterono esercitare il loro diritto elettorale, attivo e passivo, fu in occasione delle elezioni amministrative, nel modenese le donne votarono per la prima volta il 31 marzo 1946. La partecipazione alle urne fu altissima.
In attesa del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 che avrebbe decretato la scelta repubblicana (circa 12.700.000 voti a favore, quasi due milioni in più dei sostenitori della monarchia) e che avrebbe formato la Costituente (per scrivere la Costituzione), nell’aprile 1945 si era istituita la Consulta, un’assemblea eccezionale e transitoria, che ebbe come principale compito quello di elaborare una legge elettorale per l’Assemblea costituente. La Consulta si riunirà per la prima volta il 25 settembre 1945.
La Consulta fu quindi il primo organismo politico nazionale in cui entrarono donne: 13 donne (10 dell’Udi), invitate direttamente dai partiti. Tra queste donne vi era l’operaia Abele Bei, la maestra Clementina Galigaris, la sarta Rina Picolato e la democristiana Angela Guidi Cingolani. E proprio di quest’ultima un articolo datato 15 ottobre 1945 di “Noi donne” riporta un intervento di risposta alla mancanza di fiducia che le donne da sempre riscontravano tra i politici: “peggio di quello che nel passato hanno saputo fare gli uomini, le donne certo non potranno fare mai”.
Rina Picolato, sarta di Torino, organizzatrice dei Gdd scrive sulle pagine di “Noi Donne” del 31 agosto 1945: “[…] le donne porteranno un contributo concreto alle riunioni della Consulta, sollevando e discutendo i problemi dell’infanzia, della scuola, i problemi così complessi dell’assistenza, quello gravissimo dell’alimentazione. […] le donne hanno già dimostrato di essere capaci di assolvere compiti difficili di responsabilità. […] sono certa che esse potranno tenere il loro posto ed assolvere i loro compiti in modo pari a quello degli uomini anche in questo massimo organo governativo”.

Box
Secoli di negazione
I motivi per cui a lungo si negò il voto alle donne risalgono già ai provvedimenti del Comitato di salute pubblica del 1793, per il quale: “Le donne sono poco capaci di concezioni elevate, di meditazioni serie, e la loro naturale esaltazione sacrificherebbe sempre gli interessi dello stato a tutto ciò che di disordinato può produrre la vivacità delle passioni”.
Così come nella Francia napoleonica, anche nelle Repubbliche giacobine italiane e poi nell’Italia unita l’emotività femminile viene letta come elemento turbativo del nuovo assetto istituzionale e sociale. La prima petizione a favore del suffragio femminile è inviata al Parlamento italiano nel 1881 da un gruppo che si definiva “cittadine italiane”: sono le donne lombarde che con l’estensione del Codice Albertino si erano viste negare, come pure le donne toscane, un diritto già acquisito.
Nel 1888 è l’intervento personale di Crispi alla Commissione parlamentare che si occupava delle riforme amministrative che determina l’esclusione delle donne dall’elettorato. Altre date significative sono il 1906, quando Anna Maria Mozzoni promuove la petizione del Comitato nazionale pro-suffragio femminile, e il 1907, anno in cui si istituisce la Commissione ministeriale che impiegò poi cinque anni per esprimere parere negativo sulla concessione dei diritti amministrativi e politici alle donne.
L’8 marzo 1919 la Camera dei deputati decide sul voto alle donne: 292 deputati favorevoli, 42 contrari. Il 3 settembre si apre la discussione sul disegno di legge presentato in luglio dalla Commissione presieduta da Gasparotto ed entro lo stesso mese si decide: voto alle donne a partire dalla legislazione successiva, con l’esclusione però delle prostitute. Il progetto di legge non poté essere approvato anche dal Senato, a causa dello scioglimento anticipato delle Camere.
E’ del novembre 1925 la legge n. 2125 presentata da Mussolini, relativa alla ammissione delle donne all’elettorato amministrativo. L’elettrice doveva avere 25 anni (gli uomini 21), per esercitare il diritto di voto doveva farne esplicita domanda, doveva appartenere ad alcune specifiche categorie (decorate, madri e vedove dei caduti in guerra, benemerite pubbliche) e dovevano versare almeno 100 lire annue di contributi comunali.
Nel luglio 1926 l’abolizione degli organismi rappresentativi locali chiude ogni discussione sui diritti politici, non solo femminili.



















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