Domenica, 26/01/2014 - Quanto il fatto che la formazione religiosa comporti inevitabilmente lo scontro con "il genere" del nome di Dio contribuisce all'ignoranza sulla questione dei generi e alla rassegnazione del pensare che "rosa e azzurro" sono sempre stati così?
Un convegno organizzato nel 2012 dall'Ufficio Scuola della diocesi di Parma - nell'ambito di una serie di incontri su "la fede dei bambini da 9 mesi a 8 anni" - aveva un bel titolo "Ma tu la pipì come la fai?". Rita Torti ne ha tratto ispirazione per una verifica sull'origine dei valori che, per come vengono trasmessi, diventano stereotipi a conferma dei ruoli tradizionali, sicuramente inventati, della donna e dell'uomo.
Quando una bimba di 3 anni è sicura che Dio "gioca con noi", oppure una di 5 dipinge due grandi farfalle e dice che "Dio sta volando in cielo con sua moglie" e ancora un'altra, suppongo di poco più grande, immagina che "sia un cerbiatto dolce, gentile, che aiuta sempre tutti", sembra che possa esistere un'immaginazione ingenua spontanea, ancora estranea alle raffigurazioni socialmente definite. Per esempio, molti dei maschietti dipendono già da un immaginario condizionato e vedono Dio come "un re", "alto e muscoloso", "potente", "forzuto e che dà le lire ai poveri", "un supereroe".
Dunque, siamo davvero alla cinghia di trasmissione del patriarcato? Una maestra sottolinea che i maschi "amano giocare con le macchinine, le spade, il pallone e ogni attività ludica che esibisca la loro forza... i ruoli generalmente sono quelli del vincente, di chi comanda e decide anche per gli altri". E' esperienza comune che, almeno da quando le bimbe in jeans non hanno più le vestine con pizzi e velluti che non vanno sgualciti, anche le femmine non solo strillano e pestano i piedi, ma sono forti nella corsa e, se aggredite, menano. Tuttavia tendenzialmente il carattere dell'affettività, della fragilità apparente e, soprattutto il disinteresse per i primati si riscontrano nelle bambine e aprono qualche finestra di vulnerabilità destinata ad aprirsi nell'adolescenza. La scuola e la famiglia non riescono ad esaurire le nuove esigenze educative: basta pensare quanto sarebbe importante la presenza di insegnanti maschi fin dall'asilo - dove la maestra è un'altra mamma - per dare più senso alla dignità dei due generi.
Ma lo "specchio" è rappresentato dalle riviste specializzate e dai libri per l'ora di religione e dai "quaderni operativi" per gli insegnanti che li accompagnano. A parte gli stereotipi sulle attività di lavoro e familiari ormai meno arcaiche di un tempo, la storia ebraica soffre il deficit delle madri. Abramo è il padre per eccellenza, ma i nomi maschili non hanno poi altrettanto storiche corrispondenze femminili: c'è Sara, ma non nella stessa proporzione Rebecca, Rachele, Lia, figurarsi Agar. Si menziona Mosè, ma non Sifra e Pua, che lo salvarono neonato, o la sorella Myriam. Idem per il Nuovo Testamento: apostoli e discepoli sembrano solo uomini; quando non prevale l'anonimato, le donne non hanno identità di discepole; i bambini che circondano Gesù non sono mai raffigurati, nemmeno nell'immaginario individuale, come anche bambine; Gesù scende agli inferi e riporta a Dio l'umanità nella figura di Adamo senza Eva. Si può menzionare la "complementarietà" di maschile e femminile, ma solo un genere diventa marginale: e l'invisibilità della donna ne autorizza l'irrilevanza, mentre termini come sessualità, famiglia, lavoro finiscono per contenere implicitamente la violenza oscura e terribile del femmicidio (quello atroce della moglie del Levita del libro dei Giudici) e della pedofilia. Anche se il genere a cui il Risorto consegna il mandato dell'annuncio è femminile.
Lascia un Commento