Martedi, 09/05/2017 - Un volume che unisce memoria e storia; è composto da una introduzione in cui vengono esplicitate le modalità di realizzazione e le riflessioni teoriche che hanno guidato il lavoro; dal diario inedito di Magda Minciotti; da un saggio che ricostruisce la biografica della protagonista e il contesto storico in cui si è sviluppata la sua vicenda.
“Considerate che avevo quindici anni”. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione" (ed Affinità Elettive) di Anna Paola Moretti
Attraverso una storia individuale si realizza un approccio meno astratto ai grandi eventi storici della storia collettiva che hanno segnato il secolo scorso, ma rimangono ancora poco conosciuti.
Il testo supera lo schema dei generi letterari, presta attenzione alla qualità della scrittura ed è adatto anche ad un incontro con le nuove generazioni.
SINOSSI
È venuto recentemente in luce un diario inedito, scritto da una ragazza quindicenne durante la sua deportazione in Germania per lavoro coatto durante la seconda guerra mondiale. Era stata arrestata per rappresaglia l’8 luglio 1944 dalle SS che ricercavano il fratello, comandante partigiano di una formazione Gap in provincia di Ancona, mentre le truppe tedesche si stavano ormai ritirando dalle Marche.
Studente ginnasiale, allenata a scrivere da una lunga pratica di cronache scolastiche, con una scrittura essenziale e limpida Magda Minciotti annotò i suoi stati d’animo e pensieri, alternandoli agli accadimenti durante le tappe di trasferimento in Italia e poi nei lager Siemens a Norimberga e a Bayreuth. La scrittura rivolta a sé era un modo per contrastare la solitudine e farsi coraggio, una strategia individuale di sopravvivenza, un mezzo per resistere ai processi di straniamento e di degradazione.
Nel diario possiamo trovare tracce di quanto segnala Carol Gilligan sullo sviluppo delle adolescenti: sebbene nei loro confronti la società eserciti pressione a disfarsi della loro voce autentica, le ragazze hanno più risorse per resistere rispetto ai ragazzi, per i quali il periodo di iniziazione al patriarcato avviene in età più precoce; così in loro possiamo cogliere sia la consapevolezza della richiesta di adeguamento sia la resistenza opposta.
Il diario di Magda Minciotti è un esempio di resilienza e di un percorso di crescita, durante il quale riesce a superare i momenti più difficili, tra cui la separazione da un fratello deportato con lei che, mandato a scavare trincee sul fronte occidentale per arrestare l’avanzata alleata, morirà di stenti.
Attraverso il diario e vari documenti custoditi dalla famiglia Minciotti (biglietti e lettere spedite clandestinamente durante la prigionia, certificato di idoneità al lavoro coatto, dichiarazioni di internati militari, fotografie) e altri documenti frutto di ricerca bibliografica e d‘archivio, l’autrice ricostruisce la storia di Magda inserendola nel contesto della lotta partigiana a Chiaravalle e nelle Marche, in cui tutta la sua famiglia fu coinvolta. Accompagna inoltre la protagonista nella vita vissuta nei lager gestiti dall’industria tedesca, che sfruttava il lavoro coatto, e sotto i bombardamenti che annientarono la città di Norimberga. La segue fino al ritorno in Italia dove la società manifestava indifferenza e diffidenza nei confronti dei deportati. Nel clima repressivo e regressivo degli anni Cinquanta, che tendeva a richiudere le donne nei ruoli tradizionali e considerava l’essere state in Germania un marchio d’infamia per le deportate, anche Magda, che pure nel diario aveva espresso più volte il desiderio di raccontare, scelse il silenzio e chiuse il diario in un cassetto.
La vicenda è anche inserita nel quadro della deportazione per lavoro coatto, con particolare attenzione alla deportazione che colpì migliaia di donne italiane, a cui la ricerca storica non si è fino ad ora interessata (su un totale stimato di 100 mila deportati per lavoro forzato, un decimo furono donne).
Il tentativo di lettura, pur nella consapevolezza delle differenziazioni esistenti all’interno del sistema concentrazionario nazista, è quello di non tenere separate le memorie delle deportate e dei deportati, ma di cogliere i tratti comuni alle varie deportazioni (politica, razziale, per lavoro coatto, per internamento militare), all’insegna del denominatore “ci portano via”.
La disumanizzazione e la riduzione a cosa che emerge dal lavoro coatto interroga anche il nostro presente.
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