Viaggi svelati / India - La "Madre Gange"; un angolo di mondo in cui il tempo si è fermato.
Marzia Beltrami Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2007
Varanasi (Benares), India: sono le 8 di una fredda mattina di febbraio e passeggiamo sui gradoni, i ghat, che scendono nelle acque fangose del Gange. “Brrrrr, che freddo! Oh, che freddo!” grida ridendo un uomo nudo, impegnato nelle sue abluzioni mattutine nel fiume. Dal mio gradino, all’asciutto e nel caldo della mia giacca, mi metto a ridere. I nostri sguardi si incontrano. “Where are you from? Da dove vieni?” e gli rispondo che sono italiana. “Sonia Ghandi! La madre dell’India! Tu sei la madre dell’India!”. Continua ad immergersi nell’acqua, ridendo e gridando “Tu sei la madre dell’India!”. Dalle 5 siamo in giro, in barca e poi a piedi ad osservare, con lo stupore di bambini, le attività rituali quotidiane di purificazione degli Hinduisti, nella città che è il centro spirituale dell’Hinduismo. I pellegrini si riversano su questa sacra riva del Gange per visitare uno dei tanti templi e bagnarsi nel fiume. I lavandai fanno il bucato sulle pietre appositamente disposte a pelo d’acqua. I Brahmini officiano il saluto al sole e meditano. Le donne stendono i sari colorati sui gradoni ad asciugare. Nel ghat Manikarnika, brucia il fuoco sacro che da 3000 anni consegna all’aldilà i cadaveri di chi viene a morire a Varanasi, liberandosi così del tedioso ciclo della reincarnazione. Da quando siamo arrivati, è un susseguirsi di cortei funerari: i familiari si raccolgono vicino al cadavere che brucia sulla legna. Le vedove piangono, gli uomini della famiglia si radono il capo a zero, tranne per una ciocca, nel caso Shiva decidesse di tirarli su con sè, in cielo.
La vita di questa antica città è rimasta inalterata da migliaia di anni. Lasciandosi alle spalle il traffico e la polvere del centro si entra nel labirinto di viuzze della città vecchia. Strette stradine in cui si divide lo spazio con le tante mucche e i loro escrementi e i negozietti di dolci, abiti, offerte rituali da portare al tempio.
Il caos urbano indiano si placa e si odono solo le campanelle devozionali, i mantra a Krishna. In ogni vicolo, ad ogni angolo, minuscoli altari scavati nelle pietra delle case proteggono il lingam, il pene di Shiva a cui gli abitanti lasciano piccoli doni: un po’ di acqua del Gange, un fiore, un pomodoro.
Faccio fatica a dormire a Varanasi: tutta la vita e la morte di migliaia di anni e milioni di persone che sono passati di qua deve essere rimasta in qualche modo nell’aria e ci contagia. Non riesco a stare ferma, non riesco a stare al chiuso, il mio sguardo deve posarsi sul fiume. Il Gange in Hindi è una parola di sesso femminile – Ganga Ma, la Madre Gange. Il suo potere di vita e fertilità, di purificazione è parte di ogni gesto della vita di questa città. Niente succede senza che si ringrazi la Madre con la continua celebrazione dell’atto sessuale primordiale, ogni volta che la sua acqua viene versata sul pene di Shiva.
Non riesco a posare la macchina fotografica: la luce a Varanasi ha una qualità indescrivibile; si riflette sull’acqua del fiume e rende l’aria scintillante. Vorrei riuscire ad immortalare quest’angolo di mondo in cui il tempo si è fermato, l’Occidente e la sua cultura non esistono e la vita e la morte ti guardano in faccia senza pietà.
(17 aprile 2007)
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