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Il ghiaccio che brucia

Il ghiaccio che brucia

Tabù - “Io lo amo a tal punto da sopportare con lui tutte le morti, mentre senza di lui non reggerei una vita” Milton, Paradiso Perduto, libro IX

Emanuela Irace Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2008

Il ghiaccio brucia, ustiona, diventa aria. Indossa mille forme prima di dissolversi. Attraversa l’acqua e si fà neve. Voce che accarezza prima. Dura come metallo poi. Stalattite. Arma. Afona. Stati di trasformazione della materia che giocano mimando l’impronta originaria: schivandola o riproducendola. Gelo che infuoca. Emozioni sospese e trattenute. Incapaci di sciogliersi: “Riso e pianto sono piccole catastrofi che esistono solo nell’uomo - dice Jaspers - sono un simbolo e il raggiungimento di un limite”. Dimenticare le proprie lacrime, trattenerle, significa asma. Mancanza di respiro. Rinuncia ai sentimenti. Le lacrime sono il cervello degli dei. Piangiamo per essere altrove e perché non possiamo dimenticare. Cacciati dal Paradiso, ne restiamo sedotti per sempre, come l’Eva di Milton, come l’incantesimo delle favole. Ci allontaniamo quando vorremmo vicinanza. Frapponiamo ostacoli e razionalità là dove vorremmo essere liberi. Seducendo l’altro per portarlo in un luogo che non gli appartiene, dove è negata la promessa mai pronunziata, ma vissuta. La felicità è un attimo che ci spaventa. Bisogna avere dimestichezza con la morte per riconoscere e trattenere la vita. Ma Eros e Thanatos sfuggono la superficie. Non vogliono cronaca ma approfondimento. Ricerca. Pensiero. Riluttanza. Fatica. Tanti passi indietro per farne uno in avanti. La vita è un passaggio effimero, chiudersi alla sua potenza, un sacrilegio. Sbagliamo senza saperlo, neghiamo senza volerlo. Agganciati a binari già dati proseguiamo nel conosciuto, in quello che abbiamo sempre fatto, nel come ci hanno insegnato, nel quanto ci hanno deprivato. Come in una recita, dentro la quale mimiamo e possiamo scrivere tutto, tranne la fine. Ci compete la vita, niente possiamo sulla morte. Tabù contemporaneo. Esperienza privatissima. Potenza negata, sulla quale nessuno può scrivere quello che accade o è stato. Per questo ce ne dimentichiamo. E’ tempo in avanti. Senza memoria. Quasi mai annunciato: e senza riflettori non c’è notizia, per noi. “A ciascuno il suo” e sarebbe ora di far disamina sui talenti. Non cosa abbiamo ricevuto e come l’abbiamo fatto fruttare, ma cosa avevamo sotto il naso senza essere in grado di vedere. Cosa abbiamo perso. E a cosa abbiamo rinunciato. Quante omissioni e quanti ri-conoscimenti negati. Quanta incapacità a com-prendere. Quanta astuzia meschina per non scoprire. Quanta paura per disvelare sé, e l’altro da sé. Quanta superficialità verso la vita dell’altro. Quanta paura della spensieratezza. Quanto gelo dopo il piacere. Perduti come i bambini di Peter Pan. Lontani dall’isola che non c’è, restiamo incantati dal sogno, nel Paradiso Perduto, e nei mille anfratti beceri e caduchi della nostra vita, apparente.





(30 settembre 2008)

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