Asia - “L’inoppugnabile soluzione finale, per molte, inizia già prima di nascere”.
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2008
“Le livre noire de la condition des femmes”, edito anche in Italia, denuncia gli scarsi progressi nella storia recente della condizione delle donne nel mondo. Molteplici gli interrogativi che il libro pone. Uno di questi è relativo alle conseguenze umane ed economiche dello squilibrio demografico dell’Asia privata di circa 90 milioni di donne, a causa della preferenza data ai bambini maschi.
Amartya Sen, premio nobel per l’economia, stima l’ampiezza delle “donne mancanti” nel mondo in 100 milioni, per la stragrande maggioranza in Cina e India, che da sole rappresentano più di un terzo della popolazione mondiale (37%). Un fenomeno, afferma, determinato da un cumulo di carenze e di pratiche sociali: soppressioni prima della nascita, sterilizzazioni di massa, cattiva alimentazione, pessime condizioni sanitarie, mancanza di cure (es: vaccini), maltrattamenti perpetrati contro le donne ecc. Da rilevare che per ogni “donna mancante” ve ne sono altrettante decine che vivono in un contesto di grande vulnerabilità. Per l’Unicef, “la morte di una bambina su dieci in India, Pakistan e Bangladesh è direttamente correlata ad una discriminazione”. In Cina si registra una situazione tale che le “donne mancanti” sarebbero intorno ai 50 milioni. Qui, come in India, la conservazione dei mezzi di produzione (spesso la terra) e del patrimonio di famiglia influenza ampiamente la decisione di privilegiare il figlio maschio. Il sistema di attribuzione delle terre coltivabili, praticato in Cina dagli anni ‘80 con la decollettivizzazione agraria, unito ad un sistema ereditario fondato su norme patrilineari, porta molti contadini a preferire un figlio maschio. In India, il valore cospicuo della dote, che rappresenta una minaccia sempre più pesante per l’equilibrio economico delle famiglie, costituisce una delle ragioni per non desiderare femmine. Queste peculiari condizioni, insieme con l’adozione di una pianificazione demografica a crescita zero, spingono oggettivamente in direzione di una selezione prenatale in base al sesso a svantaggio delle femmine dando, come afferma Marie-Claire Bergère, “forza nuova all’antica maledizione”. L’irruzione degli strumenti della modernità, come l’amniocentesi o l’ecografia, ha aggravato il fenomeno, al punto che il ricorso sistematico a questi controlli è stato, ad esempio, proibito in India, poiché la ratio uomini/donne è sempre più squilibrata. Attualmente, in India l’eccesso di maschi alla nascita è del 6%, mentre in Cina è del 12%.
Le disparità di genere non affliggono soltanto Cina e India, i due giganti del mondo. Anche a Taiwan, Corea del Sud e, in minor misura, Indonesia (paesi che raggruppano tre dei sei miliardi e mezzo di abitanti della terra), le pratiche discriminatorie degli aborti selettivi di feti femmine concorrono al “deficit” insieme ad altri fattori quali il trattamento disuguale tra bambini e bambine in campo sociale, sanitario ed alimentare, che è all’origine dell’alto tasso di mortalità femminile durante l’infanzia. In Corea del Sud il rapporto maschi/femmine è di 108 bambini ogni 100 bambine, mentre in Indonesia questo rapporto tra i bambini con età inferiore all’anno è di 106,3 maschi ogni 100 femmine. Questi squilibri si stanno diffondendo anche in altre zone del continente asiatico. Ad esempio, in Vietnam. Più o meno, tutte le società asiatiche si caratterizzano per una scarsità di nascite femminili e hanno in comune una forte predilezione per i figli maschi, accentuata dal calo drastico del tasso di natalità. Isabelle Attané sostiene che in “Cina, India, Corea del Sud e Taiwan, maschi e femmine sono nati in proporzioni normali fino agli inizi degli anni ‘80. Dopo di allora, con la diminuzione della fecondità, la preferenza tradizionale per i figli maschi è diventata esasperata e ha soppiantato le leggi biologiche, rompendo così l’equilibrio naturale”. Lo scrittore libanese Amin Maalouf nel suo libro “Le premier siècle après Béatrice” ha immaginato l’effetto estremo della soppressione prenatale in base al sesso, che definisce prassi discriminatoria radicale: l’autogenocidio delle popolazioni misogine. Tuttavia, anche laddove la selezione prenatale in base al sesso è poco diffusa come in Pakistan e Bangladesh, e dove le donne fanno più figli, la discriminazione tra i sessi è comunque un dato allarmante. In Pakistan almeno tre donne vengono uccise ogni giorno in omicidi d’onore, che restano impuniti al 100% perché, come denuncia l’attivista Nahida Mahbooba Elahi, “la polizia li giudica affari privati e si rifiuta regolarmente di perseguirli”.
In Asia le pratiche discriminatorie “derivano direttamente dallo status d’inferiorità delle donne nella società: sistemi patriarcali, famiglie patrilineari, condizionamenti sociali che incoraggiano la sottomissione al marito e alla famiglia acquisita, matrimoni combinati. Un figlio maschio è indispensabile per mantenere la famiglia, per perpetuare il nome e garantire la riproduzione sociale e biologica. In Cina, a Taiwan, nella Corea del Sud, l’assenza di un erede maschio significa l’estinzione della famiglia e del culto degli avi. Secondo la religione induista, è la condanna per i genitori a vagare in eterno, poiché la tradizione incarica il figlio maschio dei riti funebri al momento del loro decesso. In India, come in Cina, una figlia è di passaggio nella casa paterna. Al momento del matrimonio, se ne andrà e si dedicherà alla famiglia del marito e, da allora, non dovrà più niente ai suoi genitori. Nelle campagne cinesi, è un dato di fatto che bisogna ‘allevare un figlio per preparare la vecchiaia’, visto che non esiste la pensione. ‘Allevare una figlia’, dice un detto cinese, è come ‘coltivare il campo di un altro’; per gli indiani, equivale ad ‘annaffiare il giardino del vicino’ (Isabelle Attané). Il riaffiorare di credenze religiose e di pratiche tradizionali come contraccolpo all’aumento delle disuguaglianze favorisce il “genocidio” perpetrato contro le donne. La povertà è un male che colpisce tutto il continente asiatico. Anche laddove vi è stata una crescita eccezionale, essa è stata di fatto accompagnata dall’acuirsi delle contraddizioni sociali. Non vi è stata cioè una crescita diffusa, piuttosto una distribuzione di ricchezza e reddito che ha generato meccanismi di sviluppo socialmente disuguali. Elisabeth Spergser ha evidenziato come in Asia ci siano oggi 900 milioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, e come in Bangladesh ci siano donne che lavorano 10 ore al giorno per 18 euro al mese, di cui 15 versati per pagare una stanza dove dormire. “L’Asia è un paese caratterizzato da enormi contrasti, dove accanto a paesi tecnologicamente avanzati come la Corea del Sud e il Giappone si trovano realtà come Tibet, India, Bangladesh dove i diritti sono negati e la povertà è assai diffusa” (Elisabeth Spergser). Le discriminazioni non sono, tuttavia, prerogativa assoluta delle zone rurali o di quelle più povere dell’Asia. In India, anche nel più prospero e industrializzato nord, la sex ratio, nell’età compresa tra zero e sei anni di età, è di 821 bambine ogni 1000 bambini.
I danni causati dagli aborti selettivi e dagli infanticidi femminili sono incalcolabili. In alcune zone del continente, il fenomeno del celibato “forzato” (ben descritto in “Matrubhoomi” del cineasta indiano Manish Jha), combinato ad un immiserimento della popolazione, sollecita la diffusione di pratiche aberranti come quella del traffico delle spose (rapimento e/o vendita di donne a scopo matrimoniale), dietro cui si celano corruzione e criminalità. Il fenomeno è un vero e proprio mercato della schiavitù controllato da reti trasnazionali.
Lo sviluppo economico porta ad un miglioramento della condizione delle donne. Ad avvalorare quest’idea vi è uno studio della Banca Mondiale realizzato su 41 paesi. Esso mostra che il gap di scolarizzazione tra ragazzi e ragazze è più marcato per il 40% dei paesi più poveri che per il 20% di quelli più ricchi. Ciononostante, alcuni economisti stanno esplorando anche la strada inversa di questa relazione: il miglioramento dello status delle donne come fattore di sviluppo. I dati raccolti da questi economisti indicano, infatti, che la crescita economica non basta per superare le discriminazioni. La Corea del Sud ha avuto un processo d’espansione economica e d’integrazione nell’economia mondiale impressionante. Oggi è una delle quattro Tigri asiatiche. Eppure, esiste un ampio divario fra ricchi e poveri. Tra quest’ultimi, le donne sono la quota maggiore anche se, pur lavorando a bassissimi salari e con scarso supporto sociale, hanno fatto aumentare il reddito pro capite ad un miliardo e duecentomila persone negli ultimi 10 anni. In Cina, nonostante l’aumento esponenziale del Pil, il fenomeno degli aborti selettivi e degli infanticidi femminili, determinati dalla politica del figlio unico, non è in diminuzione. Come afferma James Wolfensohn, ex presidente della Banca mondiale, “incoraggiare, ad esempio, l’istruzione delle ragazze in questi paesi avrà un effetto catalizzatore in tutti i campi dello sviluppo: favorirà il calo della mortalità infantile e materna, l’aumento della riuscita scolastica per entrambi i sessi, l’incremento della produttività, il progresso nel rispetto dell’ambiente ecc. Tutti questi miglioramenti si tradurranno in una crescita economica più rapida e in una più ampia ripartizione dei frutti della crescita”.
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