Paestum, 36 anni dopo - Il 6 e 7 ottobre l’appuntamento ha evidenziato differenze generazionali. A partire dalla pretesa esistenza di una ‘ortodossia femminista’
Colanicchia Ingrid Venerdi, 16/11/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2012
È possibile guardare alla crisi che stiamo vivendo - che è crisi politica, economica, culturale - con uno sguardo diverso che assuma la forza e la consapevolezza del femminismo come elemento trasformativo? Convinte di sì e che questa operazione sia quanto mai necessaria, alcune voci del femminismo storico italiano hanno invitato a una due giorni di riflessione e dibattito svoltasi il 6 e 7 ottobre scorso a Paestum (dove nel 1976 ebbe luogo l’ultimo convegno del movimento delle donne) a partire dal titolo “Primum vivere anche nella crisi”. “Davanti alla sfida della libertà femminile - si legge nella lettera di convocazione - la politica ufficiale e quella dei movimenti rispondono cercando di fare posto alle donne, un po’ di posto alle loro condizioni che sono sempre meno libere e meno significative. No. Tante cose sono cambiate ma le istanze radicali del femminismo sono vive e vegete. E sono da rimettere in gioco, soprattutto oggi, di fronte agli effetti di una crisi che sembra non avere una via d’uscita e a una politica sempre più subalterna all’economia”. E se in 800 hanno risposto all’appello significa che almeno una cosa è certa: Paestum ha colto un bisogno.
Lavoro e cura, auto-rappresentazione e rappresentanza, sessualità e potere i nodi proposti nel documento dalle promotrici (tra cui figurano, tra le altre, Maria Luisa Boccia, Lia Cigarini, Elettra Deiana, Lea Melandri, Biancamaria Pomeranzi). Temi che però non hanno orientato il dibattito quanto avrebbero potuto e forse dovuto. L’assenza di interventi introduttivi strutturati (fatta eccezione per il saluto dell’associazione Artemide, all’origine dell’iniziativa, e per il breve intervento di apertura di Lea Melandri), se apprezzabile dal punto di vista dell’orizzontalità ha però fatto sì che la discussione risultasse confusa e che si polarizzasse, senza però scendere in profondità, intorno solo a due dei nodi proposti nella lettera-invito, evidentemente i più sentiti: la rappresentanza e il lavoro, o più precisamente il precariato, posto al centro del dibattito soprattutto dalle donne della nuova generazione.
Ma mentre la questione della rappresentanza (quanto meno nelle due assemblee plenarie di sabato e domenica mattina; più difficile dire come siano andate le cose in tutti e 10 i gruppi di lavoro che si sono riuniti separatamente nel pomeriggio del sabato) è stata spesso ridotta a una presa di posizione sul “50 e 50” (senza parlare invece della morte stessa della rappresentanza, come ha sottolineato Elettra Deiana in un commento apparso l’11 ottobre sul sito dedicato all’iniziativa) più articolata è stata la discussione sul precariato, assunto, almeno da una parte delle convenute, non come mera condizione ma come sguardo con cui guardare al mondo e persino come risorsa: per “liberare le nostre identità dall’opposizione lavoro e non lavoro”, come è stato detto da più di una. Le stesse che hanno individuato nel reddito di cittadinanza (o di esistenza), l’alternativa a questo ricatto di fare di noi stesse una risorsa umana. Reddito inteso come “opportunità di scardinare e destrutturare il sistema produttivo attuale e di ridisegnare un nuovo immaginario collettivo in cui le nostre esistenze non siano subordinate al lavoro”, ha detto Angela Ammirati dell’associazione DaSud. Reddito come strumento di autodeterminazione, reddito come “pratica femminista” anche se riguarda tutte e tutti.
Benché riecheggiata più volte, la questione del reddito non sembra essere stata accolta dalla maggioranza delle partecipanti, ma forse, per questo, sarebbe stata necessaria una discussione preliminare sul suo significato più profondo. Alcune (mi riferisco in particolar modo a quanto emerso nel gruppo di lavoro numero 9, al quale ho partecipato) hanno parlato della possibilità di fare del proprio luogo di lavoro terreno politico, spazio pubblico; altre hanno posto l’accento sulla necessità di non rendere il precariato un unico universale che renda difficile leggere la realtà nella sua complessità.
Ma il reddito di cittadinanza non è, per chi lo sostiene (in prima linea il gruppo delle Diversamente occupate), equivalente a un “no al lavoro”. “Diciamo reddito non perché diciamo no al lavoro tout-court - ha scritto Valeria Mercandino delle Diversamente occupate in un commento su Paestum apparso sul loro blog (16/10) - ma perché conosciamo il lavoro che assorbe ogni singola energia e che non permette di investire più nulla in quello a cui teniamo di più, nella politica e nelle relazioni”. “Sta a noi tutte pensare alle pratiche politiche necessarie per rendere il reddito di esistenza un'arma nelle nostre mani, nella direzione di una universalizzazione dei servizi, oltre che dei diritti, fuori dal controllo neoliberista”.
“Non poniamo nel reddito la condicio sine qua non di ogni possibilità di autodeterminazione femminile”, ha precisato su Gli altri Angela Ammirati (11/10). “Non consegniamo la nostra libertà alla speranza di un nuovo diritto. La nostra interezza, non si gioca tutta qui, ma anche nella ricchezza della ‘relazione’, la cui pratica e forza, come il femminismo ci ha insegnato, modificano l’esistente”.
Una pratica, quella della relazione, che a Paestum ha avuto modo di sperimentarsi anche nella dimensione del conflitto, o quanto meno della differenza tra la generazione di quelle che a Paestum ci erano già state 36 anni fa e quella di quante 36 anni fa non erano ancora nate.
Una differenza di sguardo, ma anche di modalità, che si è manifestata esplicitamente nel gruppo di lavoro numero 9 nel quale il dibattito è riuscito a decollare sono una volta nominate le divergenze che opponevano la “vecchia guardia” e le “nuove forze” quanto a impostazione della discussione. Perché se è vero che il “riconoscimento di soggettività delle giovani” non è “in contraddizione con il riconoscimento di genealogia che fa la storia e la forza del femminismo” (Dominijanni) è altresì legittimo contestare la pretesa esistenza di una “ortodossia” femminista che possa, per esempio, sancire cosa è femminista e cosa non lo è.
“Siamo tutte femministe storiche”, ha azzardato Eleonora Forenza. La storia d’altronde non è finita, per fortuna.
Per info sui prossimi appuntamenti: http://paestum2012.wordpress.com/
Lascia un Commento