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Il dubbio contro il dogma - Intervista a cura di Tiziana Bartolini

Il dubbio contro il dogma - Intervista a cura di Tiziana Bartolini

Intervista alla Prof.ssa Luisella Battaglia autrice di 'Bioetica senza dogmi' (Ed Rubbettino) in occasione della presentazione a Roma giovedì 22 aprile

Lunedi, 19/04/2010 - In occasione della presentazione (il giorno 22 aprile) del libro 'Bioetica senza dogmi' abbiamo intervistato l'autrice,  prof.ssa Luisella Battaglia che è docente di Bioetica e Filosofia Morale presso l'Università di Genova e l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Direttore scientifico e fondatrice delll'Istituto Italiano di Bioetica e dal 1999 è membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.



Perché ha voluto intitolare il suo libro 'Bioetica senza dogmi' quando invece il dibattito su temi delicati come ad esempio il testamento biologico si fonda sul credo religioso?

Un amico ha spiritosamente osservato che avrei dovuto intitolare il mio libro Dogmi senza bioetica, dal momento che la mentalità dogmatica, nutrita di articoli di fede e prese di posizioni assolutistiche, rischia di prevalere sulla discussione razionale e argomentata su cui dovrebbe fondarsi la bioetica. Se questo è vero — e temo che lo sia —allora è tanto più necessario l’impegno per una bioetica senza dogmi, aperta al dubbio, al confronto dialettico, allo spirito critico. Oggi vediamo una crescente tendenza a estendere sempre più il potere della società sull’individuo. Basti pensare alla legislazione in materia di procreazione assistita, alla legge 40, la più restrittiva e illiberale a livello europeo, da cui emerge nettamente la volontà di regolare l’intera vita privata dei cittadini, facendo intervenire l’autorità pubblica proprio nella sfera più personale e intima, quella della sessualità e delle connesse scelte procreative. Altrettanto sconcertanti appaiono le difficoltà frapposte da anni al cammino di una legge civile come il testamento biologico: un segnale, ancora una volta, del fatto che in una società come la nostra i valori liberali esistono in forma contraddittoria e nella loro applicazione alla pratica bioetica si mescolano a varie forme di autoritarismo e di paternalismo, sia di carattere religioso che medico e burocratico. Siamo ben lontani dalla lezione di John Stuart Mill-- il filosofo che ha più contribuito nell’800 alla causa dei diritti delle donne-- per il quale:"la libertà che sola merita questo nome è la libertà di cercare il nostro bene personale come meglio crediamo, finché non priviamo gli altri del loro o non ne ostacoliamo gli sforzi per procurarselo".



Nel libro dedica un capitolo alla bioetica in una prospettiva di genere. Perché questo focus?


Riflettere sulla “prospettiva di genere” in bioetica porta inevitabilmente a interrogarsi non solo su cosa significhi esprimere la differenza, come elemento fondamentale delle’esperienza morale e del ragionamento pratico, ma anche sulle ragioni del suo scarso peso, almeno fino ad anni abbastanza recenti. Tra le possibili cause si sono indicati, in particolare, il tendenziale deduttivismo di una bioetica basata sui principi e quindi poco propensa a considerare l’importanza del contesto – cui invece è assai sensibile l’approccio femminile e femminista – e la predominanza dell’individualismo liberale con la sua enfasi sul paradigma dei diritti a scapito della responsabilità e della cura. Nel capitolo 'Voci di donne' affronto specificamente i due temi. Conquistare una prospettiva di genere comporta innanzitutto mettere in questione l’idea di un soggetto neutrale, privo di quei tratti che ne definiscono l’identità e la condizione esistenziale: ciò ha condotto sia alla riconsiderazione critica di talune prospettive filosofiche tradizionali – come il deontologismo, il contrattualismo, l’utilitarismo – sia alla definizione di un approccio relazionale, inteso come quadro di riferimento teorico più adeguato alla complessità delle questioni bioetiche. L’attenzione alle differenze plurime – di genere, di età, di status, di etnia, di specie – ha consentito di aprire nuovi percorsi teorici nelle diverse dimensioni della bioetica – medica, ambientale, animale. Pur nella grande varietà dei contributi della bioetica femminile e femminista, “prendere sul serio le differenze” ha significato, da un lato, non trascurare il peso che esse esercitano sulla vita di ciascuno, dall’altro combattere contro le varie forme di discriminazione, proseguendo la lotta irrinunciabile per l’eguaglianza. Pensare ad una contraddizione tra i due obiettivi significherebbe commettere un grossolano errore teorico: la valorizzazione della differenza si fonda, a ben vedere, sul principio normativo dell’eguaglianza, da intendersi come rivendicazione dell’uguale valore delle differenze quali connotati costitutivi dell’identità delle persone. Si potrebbe pertanto affermare che il diritto all’eguaglianza si identifichi con il diritto alle identità differenti.



In estrema sintesi, quale è la principale tesi che maggiormente intende sostenere nel suo libro?

Il libro muove dall’esigenza di superare la contrapposizione tra ‘sacralità e ‘qualità’ della vita — la ‘grande divisione’ tra cultura cattolica e laica — su cui specie nel nostro paese si è imperniato il dibattito bioetico, per avviare una riflessione sull’idea di ‘buona vita’. Si tratta di un’idea di antica ascendenza aristotelica ma che oggi si colloca nel quadro dell’approccio delle capacità illustrato da Amartya Sen e da Martha Nussbaum. La prospettiva incentrata sull’idea di ‘buona vita ’ può presentare una serie di caratteri di particolare interesse per la bioetica. Innanzitutto per ‘buona vita’ deve intendersi una vita realizzata in tutte le capacità che un essere umano ritiene importante realizzare. L’aristotelismo ci aiuta, in tal senso, a comprendere ciò che ci accomuna tutti e in un certo senso ci rende eguali, al di là delle differenze culturali. Il riferimento va certo ad una ‘identità di specie’ che fonda su base bio-antropologica le capacità proprie dell’individuo umano in quanto tale – si veda, al riguardo, la lista di capacità considerate fondamentali dalla Nussbaum – ma, nel contempo, sottolinea il carattere irriducibilmente personale delle scelte che ciascuno è chiamato a compiere, in relazione alla sua storia, alla sua cultura di appartenenza,ai valori e alle credenze che danno un senso alla sua esistenza. L’indubbio universalismo dell’approccio delle capacità è dunque temperato da una forte attenzione per le differenze che segnano i singoli individui: esiste una pluralità di capacità perché esiste una pluralità di fini e di obiettivi che gli uomini possono perseguire. Ma tale approccio delle capacità mostra la sua fertilità anche in una estensione interspecifica: se accettiamo infatti l’idea che la giustizia esiste per assicurare una vita dignitosa a molti tipi di esseri viventi, non sembra esserci una valida ragione per cui i meccanismi esistenti della giustizia non possano estendersi agli animali non umani al fine di garantire loro una soglia minima di capacità e, quindi, di diritti fondamentali.

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