Redazione Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2006
Alle origini della propria teoria dell’esperienza Walter Benjamin, uno dei filosofi più significativi del secolo che si è appena concluso, pone una domanda che ha dell’assurdo, come spesso appaiono quelle dei bambini.
Rievocando alla distanza dei ricordi, in una lettera a Theodor Adorno, le proprie passeggiate con il fratello nei luoghi della consuetudine familiare, nei soliti posti di quando erano piccoli, d’estate, scrive infatti:
E dopo che avevamo visitato una delle mete d’obbligo delle nostre escursioni, mio fratello soleva dire “dunque, saremmo stati qui”. Questa formula mi si è impressa in modo indelebile nella memoria.
Dunque, saremmo stati qui. Questo condizionale ci spiazza.
Ci siamo stati davvero nei luoghi dai quali siamo appena tornati?
Secondo Benjamin, nel nucleo della questione dell’esperienza sta dunque la percezione di un dubbio. Di un dubbio dalla natura così scompaginante.
Di non sapere chi siamo.
Il non essere affatto certi della nostra identità, e neppure del nostro passato più prossimo.
Non sai mai dove sei – come scrive Giorgio Caproni – e non sei mai dove sai.
Ammettere di non sapere chi siamo e dove siamo è segno di estraneità e di una specie di lucido disordine, ma è anche una sensazione che ci porta fuori dal senso comune, che mette in questione il quotidiano e l’ovvio e afferma la necessità di affidarsi a un sapere disabituale.
Per tornare all’interrogativo di Benjamin dal quale siamo partiti, il dubbio sta dunque sulle soglie dell’esperienza e dove non esistono dubbi non c’è sapere.
Contro ogni logica, sarebbe quindi necessario, per acquisire conoscenza di sé e del mondo, dubitare dell’evidenza, del vissuto e dello sperimentato.
E quando eravamo presenti? Quando abbiamo visto con i nostri occhi?
Io c’ero. Io lo so.
Il senso comune, l’opinione corrente non si rivela altro, spesso, che una costruzione intesa a tenere i dubbi fuori della nostra portata finché è possibile. E gli interrogativi vengono respinti ai margini perché sono troppo difficili da sostenere.
Il senso comune, quello che tutti pensano, ciò in cui tutti si riconoscono e che il più delle volte deriva da un insieme di postulati irragionevoli e di esperienze frettolosamente generalizzate, ci permette sì di tirare avanti, di affrontare gli ostacoli abituali delle più prevedibili contingenze della vita, ma ci spinge anche alla morte nella banalità, alla sequenza tediosa delle frasi fatte, alla cheratinizzazione della coscienza di fronte al nuovo, di fronte all’altro.
Il preteso senso comune, l’evidenza troppo perentoria uccidono la curiosità.
In questi casi, lo smottamento provocato da un dubbio, l’insinuarsi in noi di una domanda può mettere in moto una qualche verità. Rivelarci il mondo da un’altra prospettiva.
Il divenire sotto il pungolo del dubbio significa qui apertura, trasformazione, ardimento. Praticare una forma di attenzione che ci tuteli dalla dispersione nell’ordinario e nel conforme, che dia spessore e risalto agli eventi anche minimi – come se fossero attraversati da un significato che non si vede perché scorre sotto, molto sotto, come una vena d’acqua segreta.
Figlia del dubbio, scaturigine dell’incerto e del non assodato, l’esperienza non può che maturare per strada, all’aperto, in viaggio. Non solo in senso metaforico.
A che gli chiede che vai a cercare?, André Gide, in partenza per il Congo, risponde vado laggiù per saperlo.
Le piccole comunità di villaggio del medioevo, gli agglomerati di casupole strette l’una all’altra nelle radure a margine del bosco o dentro alla doppia cinta di mura del castello, componevano al proprio interno una trama fittissima di relazioni di parentela, di vicinato, di proprietà indivise e di diritti comuni.
I rapporti quotidiani di sangue, di legge e di scambio facilitavano inevitabilmente l’accumularsi di piccoli soprusi che finivano per alimentare una lunga catena di dispetti e di rancore, di malanimo, di insofferenza e di litigiosità. E anche le questioni di poco conto si trasformavano col tempo in un groviglio complicato i cui nodi non era più possibile sgarbugliare.
Fino a che l’integrità del gruppo veniva lacerata da conflitti spesso sanguinosi, e si moltiplicavano le colpe che nemmeno l’autorità del sacerdote del villaggio riusciva più a dirimere e a perdonare, partecipe com’era, a sua volta, di questa collettività angusta e conflagrante
Era necessario allora mettersi in salvo dal troppo vicino, che non è quasi mai la distanza giusta.
Era tempo di cambiare radicalmente orizzonte.
Era il momento di partire per un pellegrinaggio, l’avventura dell’altrove per eccellenza.
Andare pellegrini significava accogliere il principio di incertezza, desituarsi dal recinto del villaggio ma anche dai confini abituali del pensiero per aprirsi a un mondo vastissimo. Affidarsi alla strada e alla provvidenza, le giornate scandite dalla provvisorietà dell’alba e del tramonto. Dal dubbio del quotidiano sopravvivere.
(tratto da HOPE, trimestrale di cultura diretto da Catia IorI)
(13 aprile 2006)
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