Una Repubblica (af)fondata sul lavoro/1 - Snaturato il principio costituzionale, oggi con ‘lavoro’ non si coniuga più la parola ‘diritto’ ma disoccupazione, precariato, deregulation
Angelucci Nadia Lunedi, 10/10/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2011
Quando i Padri e le Madri costituenti scrissero l’articolo 1 della nostra Magna Carta certamente non pensavano che sarebbe andata a finire così. Quell’unicum della nostra Costituzione, “fondata sul lavoro”, è stato travolto da una realtà di disoccupazione, precariato, deregulation, continua erosione dei diritti e delle tutele, disuguaglianze sociali e sperequazione salariale. Nei fatti esattamente il contrario di quanto i costituenti avevano immaginato quando attraverso l’art. 1 avevano espresso la volontà di proteggere coloro che vivono del proprio lavoro; quando nell’art. 3 avevano sottolineato la necessità che la Repubblica rimuova “gli ostacoli di ordine economico e sociale (…)”; quando nell’art. 4 avevano posto le basi di un vero e proprio “diritto al lavoro”. Ma, paradosso nel paradosso, chiediamoci se non sia stata proprio la visione filosofica e celebrativa del lavoro contenuta nella nostra Costituzione - un luogo mitico capace di generare esso stesso ‘umanità’, lo spazio privilegiato in cui i cittadini avrebbero trovato il senso ultimo della propria esistenza - ad aver contribuito alla situazione in cui siamo finiti. Perché la ‘malattia’ del lavoro odierno non è solo figlia della crisi economica che stiamo vivendo e tanto ci spaventa; il lavoro ‘ammalato’ è intimamente collegato alla stessa patologia della crisi. E lo è perché, nel momento in cui è diventato un orizzonte di senso della vita, ha smesso di essere al servizio dell’uomo ed è stato risucchiato acriticamente nel meccanismo della crescita illimitata tollerando, in nome di se stesso, che gli uomini e le donne e il pianeta sul quale viviamo, fossero imprigionati in una funzione meramente strumentale subordinata alla crescita economica. Chi si è fatto travolgere da questa visione non ha potuto più sottrarsi alla dottrina produttivista diventando esso stesso prodotto della sua occupazione. Non solo un’alienazione nel lavoro preconizzata da Marx ma anche un’alienazione da lavoro che si manifesta quando la dimensione produttiva viene assunta come interezza della propria vita a scapito degli altri aspetti. E a questo meccanismo, soprattutto, non sono stati capaci di sottrarsi il sindacato, ammaliato dalle dottrine produttiviste, e in generale il movimento socialista che, pur operando una critica dei diktat neoliberisti, non è riuscito a liberarsi dal mito del progresso come crescita economica. Non meravigliamoci dunque se le ricette per uscire dalla crisi sembrano inadeguate e provvisorie. La crisi offre l’opportunità di riposizionare anche il ruolo del lavoro nelle nostre società ma a patto di una ridiscussione radicale del modelli di riferimento, come andiamo dicendo da tempo.
Noi donne, che con entusiasmo e passione ci siamo avvicinate al mondo del lavoro con l’illusione di poter esprimere tutta la nostra creatività, dentro questo meccanismo siamo rimaste schiacciate. E adesso siamo molto arrabbiate, spesso tristi, oppresse per una promessa che non si è mantenuta.
Nel corteo dello sciopero generale del passato 6 settembre grandissima era quantità di striscioni che rimandava a diverse realtà dei ‘lavoratori della conoscenza’. E dietro quei cartelli i volti delle donne; un rilevante protagonismo femminile che fa capo ad un processo di femminilizzazione del lavoro, ormai in atto da decenni, e che è prodotto principalmente della transizione da un capitalismo industriale ad un capitalismo cognitivo che ha le sue radici nella ‘valorizzazione’ delle attitudini relazionali, di attenzione e di cura che da sempre sono proprie delle donne. E qui si manifesta il doppio inganno per il genere femminile: da una parte l’illusione della parità, che naufraga però di fronte alle disuguaglianze di carichi di lavoro, di salari, di prospettive di carriera, e dall’altra quella della differenza, dove le intelligenze e le sensibilità relazionali vengono espropriate al servizio del mercato globale. Tutto ciò è possibile per le condizioni di estrema ricattabilità a cui si è sottoposti e al violento processo di precarizzazione che finisce per trasformarsi in precarietà esistenziale. E in una prospettiva di analisi che non può non essere globale - perché, non dimentichiamo, la quota di lavoratori che con le loro famiglie vivono con meno di 2 dollari al giorno è pari al 40% della forza lavoro mondiale, sono meno del 15% i lavoratori coperti da qualche forma di protezione sociale, il lavoro minorile riguarda 306 milioni di bambini, di questi almeno 8 operano in situazione di schiavitù, il lavoro forzato concerne 12 milioni di persone – assume un’importanza fondamentale il fenomeno migratorio, appendice proprio di quella femminilizzazione del lavoro, e luogo di scambio della cura e del lavoro riproduttivo. Le donne sono quindi forzate a questi cardini: precarietà, lavoro di cura che diventa lavoro produttivo e divisione cognitiva del lavoro. Una combinazione micidiale a cui il nostro welfare, prevalentemente basato sul familismo, non trova soluzione e anzi rende ancora più vischioso. E’ forse questa profonda frattura, identitaria prima che sociale, che fa si che le donne italiane abbiano un bassissimo tasso di occupazione e di natalità, che la scolarizzazione e l’istruzione siano in aumento a fronte di una scarsa presenza nel mondo del lavoro, che in moltissime abbiano ‘scelto’ di non cercare più lavoro. Questo il motivo per cui non bastano più le semplici ricette riformiste che ripropongono uno schema che ha già dimostrato di non funzionare, per gli uomini e le donne. E, da parte nostra, c’è bisogno di coraggio nel riconoscere le contraddizioni di una teoria economica e di una condizione lavorativa e pensare, per tutti, un percorso ‘differente’.
Alcuni dati sul lavoro
RETRIBUZIONI
Rispetto alla retribuzione media quotidiana (82 euro), un dirigente guadagna 340 euro in più al giorno, un quadro 111 euro, un impiegato 6 euro in più, mentre un operaio si mette in tasca un salario giornaliero di 16 euro inferiore alla media. Le donne ricevono mediamente al giorno 27 euro in meno; il divario retributivo uomo-donna è una costante della struttura salariale italiana.
LAVORO SOMMERSO
12 posti di lavoro su 100 sono irregolari, 18% al Sud e il 27% il Calabria
RICERCA E SVILUPPO
I lavoratori della conoscenza nel settore privato in Italia sono poco più di centomila, di cui 35mila ricercatori, 41mila tecnici e 24mila altri addetti alla ricerca. In Giappone il totale degli addetti è quasi sei volte superiore (683mila), tre volte in Germania (341mila). Una nazione demograficamente piccola come l’Olanda ha solo 6mila ricercatori meno dell’Italia.
ATIPICI
Quasi un lavoratore su quattro (23%) ha una occupazione “non standard”, ovvero non a orario pieno e non a tempo indeterminato: il 12%, pari a 2milioni e 700mila individui, è un lavoratore a tempo parziale, mentre l’11% è un atipico (tempi determinati e collaboratori). Le donne sono la categoria maggiormente interessata da un tipo di occupazione definita ‘non standard’ cioè non a orario pieno e non a tempo determinato: sono infatti l’80,1% e in due casi su tre in un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, occupate nel settore dei servizi nell’83,8%; il profilo di queste lavoratrici è quello di una madre che lavora a tempo parziale
DISOCCUPAZIONE
I disoccupati di lunga durata (almeno 24 mesi) superano il 45% del totale dei disoccupati. Gli
‘scoraggiati’ (coloro che un’occupazione non la cercano più perché sfiduciati) rappresentano 1 milione e mezzo di persone, in gran parte concentrate nelle regioni meridionali.
SOVRA-ISTRUZIONE E SOTTOIMPIEGO
La percentuale di sovra-istruzione tra gli italiani è del 19%; Tra gli stranieri supera il 42%.
La sottoccupazione interessa il 4% dei lavoratori italiani, mentre tra gli stranieri si supera il 10%.
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