Violenze storiche - Breve ricognizione storica del diritto al femminile, dall'antica Roma ai nostri giorni
Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2006
Negli anni tra '80 e '90 del secolo scorso era di moda parlare di "diritto sessuato" e perfino la rivista del Centro riforma dello stato dedicò a questo tema un numero speciale, nutrito di saggi femminil-femministi di qualche valore, almeno rispetto ai fini di chi si proponeva di riformare la Stato. Erano anche gli anni del lungo varo di una legge sulla violenza sessuale, protrattasi per vent'anni e sei legislature, anche se rispondeva alle richiesta dell'elettorato femminile di tutte le parti politiche e non costava una lira allo stato, dovendo solo spostare la norma dai "reati contro la morale" a quelli "contro la persona". Occorre comunque ricordare che una legge di penalizzazione dello stupro è
significativa anche per il diritto, ma non lo innova. In fondo, la vecchia concezione che lo metteva nel novero dei delitti contro la morale ne sanciva a suo modo l'infamia, anche se la morale, esaltata a parole, giuridicamente non vale molto: anche la bestemmia non era una cosa decente, ma non si poteva pensare che fosse oggetto di grave sanzione penale. Non dimentichiamo, in ogni caso, che nel Medioevo "sforzare una donzella" era azione turpe e penalmente rilevante (ovviamente se riguardava la nobiltà) e anche per il diritto romano non si trattava di reato di poco conto. Ma la morale e la legge facevano riferimento ad un bene non riferibile alla donna e tanto meno alla sua dignità, ma ai proprietari di quel bene: padri, fratelli, mariti, figli.
Il diritto romano, che è fondamento del diritto di gran parte dei paesi occidentali, è molto chiaro: le donne non hanno titolarità di diritti e, anche quando arrivano ad ottenerne l'esecuzione, non sono quasi mai libere di esigerli in prima persona. Il matrimonium non aveva a che vedere con il patrimonium. Quando un padre consegnava la figlia ad un uomo che la portava via dalla casa paterna (uxorem ducere) legalmente, riteneva esaurito il suo compito di padre-custode con il contratto del regime dotale. La donna cambiava proprietà e difficilmente aveva diritto a scegliere il compagno di vita o a divorziare di propria iniziativa. Tuttavia, qualche "libertà" le era consentita: se il marito non piaceva, tradiva, picchiava e sperperava la dote, poteva ottenere giustizia, perché chi aveva pagato la dote e non voleva essere defraudato era sempre il padre, disposto ad asciugare le
lacrime delle figlie non disinteressatamente. I Romani antichi non tiravano in ballo la morale, come si farà nei successivi secoli cattolici, anche oltre la rivoluzione francese e fino alle lotte per la parità e il voto. I Romani onestamente tenevano il patrimonium come norma: lo si vede bene nel caso dell'adulterio, reato a carico della donna perché da un tradimento femminile poteva nascere un figlio che avrebbe attentato al patrimonio destinato alla prole legittima. Nel secolo XIX la giustizia trattava la moralità famigliare in termini ben più ambigui: l'adulterio era punito per l'uomo soltanto quando costituiva "oltraggio grave" per la famiglia (nel senso che il fedifrago imponeva la convivenza con l'altra), mentre per la donna era sempre penalizzato, perché nella famiglia la donna doveva essere rispettabile.
La collusione fra legge e costume ha fatto sì che l'adulterio, cioè una relazione fra consenzienti, sia stato depenalizzato giuridicamente soltanto nel 1968. In questo caso il costume mutato ha reso possibile la legge e la norma ha contribuito a modificare il costume.
Non è successo - e non succede - lo stesso nel caso della violenza sessuale, del maltrattamento famigliare, delle molestie, dell'uso dell'immagine. Il diritto di famiglia del 1975 ha scalzato giuridicamente la patria potestas, ma non l'ha cancellata dal linguaggio comune e non è diventato abituale parlare di "potestà genitoriale". Le richieste di più equilibrata rappresentanza parlamentare fa a pugni con le copertine dei rotocalchi e i varietà televisivi che mercificano la dignità dell'immagine femminile. I maltrattamenti arrivano alla giustizia solo quando diventano persecuzioni e lesioni intollerabili, purtroppo anche a carico dei minori.
La violenza sessuale è stata oggetto di discussione parlamentare, si è detto, per un ventennio in tempi in cui i movimenti e i gruppi femministi stavano nelle piazze e facevano notizia. Sembra che il costume non abbia recepito che alle donne interessa fino a un certo punto che lo stupratore
abbia un anno o due di pena in più. Interessa nell'ottica "neutra" di queste leggi, che non sono fatte secondo la logica delle donne, che chiedono soltanto di non subire alcuna violenza.
E' indubbio che si deve intervenire con singole e differenziate misure di legge; ma è anche importante che il costume introietti che ogni volta che si contravviene la dignità femminile si dà violenza.
Fa un po' pena che in questi mesi si gridi all'emergenza, quando sono particolarmente numerose non le violenze (che sono sempre più o meno presenti oltre le denunce), ma le notizie delle violenze di cui sono responsabili soprattutto gli stranieri. In realtà la violenza è una costante che non si riesce ancora a schiodare dal sistema sociale. Anche senza aggressione sessuale diretta, può essere il complimento (o la mano) pesante, la preclusione da carriere e cattedre, la forzatura di mariti e
compagni quando la donna non è disposta all'abbraccio, la mancanza di parità nelle tavole rotonde e nei convegni, ma è sempre violenza contro la dignità femminile.
Se le donne giovani - benedetta anche questa "emergenza" che le riporta in piazza - vorranno e sapranno, senza parcellizzare la loro causa e senza vittimizzarsi, imporre alla società questo cambiamento di mentalità, ci sarà da sperare per il futuro della nostra dignità. Nostra, per dire anche
dell'uomo.
(13 novembre 2006)
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