Venerdi, 23/04/2021 - Sono della generazione, (e ho il sesso), di chi è stata sempre in fondo al discorso politico, pur essendo parte della maggioranza sul pianeta: i lavoratori, (nel maschile ovviamente sono comprese le lavoratrici, ma non si nominavano), i giovani, i neri, gli anziani, gli handicappati, le donne…
Nella retorica sindacale e della sinistra questa è stata, per decenni, la scansione dei soggetti, salvo poi ridurre il femminile nel (presunto) neutro maschile.
La storia umana ci insegna che ogni sistema di pensiero, e ogni pratica politica totalitaria, si fondano sul disvalore e l’inferiorizzazione delle donne: misoginia e sessismo sono, non a caso, alla base della potente alleanza tra patriarcato e fondamentalismo religioso, che prevedono un ferreo controllo sui corpi, sulla gestione della sessualità, della riproduzione e della libertà delle donne. E in ogni sistema di pensiero violento, discriminatorio e misogino allignano elementi razzisti e omofobi: il nonnismo in caserma, l’abuso nelle carceri, l’odio virtuale nei social, (solo per citare alcuni esempi), hanno alla base la riduzione degli uomini a ‘femmine’, nel linguaggio come nella pratica dell’oltraggio, sempre al limite dello stupro.
Lo sottolineo perché penso che, se occultiamo i fondamenti culturali che hanno portato le donne a diventare, attraverso il femminismo, il soggetto politico che ha ispirato l’universalità dei diritti, (i diritti delle donne sono la base di quelli universali, o i diritti non sono tali) il rischio è di perdere il fulcro della rivoluzione che il femminismo ha portato nella politica, nello spazio pubblico come in quello privato, ridisegnando il senso stesso della cittadinanza: rendendola, finalmente, sessuata.
Ricordo, come ci ha insegnato Lidia Menapace, che la caratteristica fondativa dell’approccio alla legge da parte del movimento delle donne, dagli anni ’70 ad oggi, è stata di pensare leggi che danno facoltà, non che obbligano, e che la loro azione è stata, nel tempo, un guadagno anche per gli uomini, che hanno conosciuto il vantaggio della parzialità e del limite: il maschile non più inteso come il tutto, dentro cui il femminile si opacizza, ma uno dei due sessi. Questo riconoscimento è l’inizio del confronto, l’esordio della democrazia e della relazione incarnata nella società.
Quando si studia il passato e si restituisce, nel presente, la storia dei diritti alle generazioni più giovani si avverte la loro meraviglia, e il loro sconcerto, nell’apprendere che in Italia, fino al 1996, lo stupro era reato contro la morale e che solo nel 2013 è stata ratificata la Convenzione di Istanbul, che non a caso oggi due paesi teocratici come la Polonia e la Turchia rigettano.
Il movimento delle donne, in tutte le sue articolazioni e varietà, non ha mai pensato a leggi di protezione contro l’odio misogino, che pure è l’ancestrale, e attualissimo, brodo di coltura dell’hate speech on line, neppure in conseguenza del triste primato che il sesso femminile detiene nella classifica della violenza: abbiamo, con fatica, affermato negli ultimi anni che esiste una specifica forma di violenza maschile contro le donne, il femminicidio, che ancora troppa stampa, tribunali e parte dell’opinione pubblica negano o minimizzano. Le studiose, le intellettuali, le attiviste femministe hanno ben chiaro che solo un lungo, profondo e diffuso lavoro culturale potrà sradicare il pregiudizio contro le donne, che alberga dovunque e costituisce, appunto, la radice di ogni violenza.
Ogni legge che le sorelle maggiori, dalle madri costituenti in poi, dentro e fuori il Parlamento, con il sostegno degli uomini di buona volontà, ci hanno consegnato nel corso dei decenni ha avuto bisogno di molto tempo per essere formulata, spiegata, compresa e digerita anche all’interno del movimento: dal divorzio in poi la strada per raggiungere il consenso è stata quella di aprire dibattiti anche aspri, e di massa, nella società, perchè la politica è anche conflitto.
Allora la domanda è questa: perché non ascoltarele critiche che una ampia parte del movimento femminista stanno da tempo avanzando sulla proposta di legge che ha come primo firmatario il deputato del Pd Alessandro Zan?
Alla richiesta di un confronto civile tra visioni diverse il parlamentare risponde (indirettamente attraverso i suoi uffici) che non c’è più tempo, che le modifiche porterebbero ad un ritorno alla Camera, che si è sentito abbandonato da chi avrebbe dovuto sostenerlo. Molti attivisti e attiviste, dentro e fuori il mondo omosessuale, affermano che sì, le critiche avanzate da un pezzo di movimento femminista, per esempio, sulla confusione tra sesso e identità di genere sono giuste ma, insomma, meglio una legge pasticciata che nessuna legge.
Fa impressione solo a me, che non sono mai stata nelle istituzioni, che un uomo delle istituzioni (di sinistra) si sottragga al dibattito, ritenga il conflitto insostenibile e affidi agli spot social e alle trasmissioni tv il consenso che dovrebbe guadagnare anche, e soprattutto, ascoltando i dubbi avanzati non per distruggere, negare differenze e diritti, ma per sanare contraddizioni confusive e pericolose?
Preoccupa solo me che la fretta di avere una legge purchessia, (fretta spinta dalla velocità di superficie dei social) abbia prodotto un clima nel quale se si avanzano dubbi (anche quando a porli è Arcilesbica) si è immediatamente tacciate di ‘fobia’, così come accade, quanto si critica l’islam, il velo, il burka, il niqab e il burkini, e si è accusate di essere coloniali e islamofobe, cancellando così l’esercizio di pensiero critico?
Quando è successo che criticare è diventato istigare all’odio?
Forse, ma mi sbaglierò, è successo quando pezzi di movimento femminista hanno ceduto spazio, (per oblatività femminile?), valutando che la parola femminista non bastava più: nell’intersezionalità e nel transfemminismo, oggi quasi una religione, non mi pare ci sia nulla di nuovo: solo la fine della centratura sulle donne come soggetto politico, e non è cosa da poco.
Certamente le destre xenofobe, omofobe e misogine sono in gran spolvero nell’opporsi non solo a questa legge ma anche, forti delle offensive oscurantiste dell’est europeo, a lanciare la sfida contro i diritti riproduttivi delle donne invocando il ritorno alla famiglia tradizionale. Ma, per usare le parole di Cinzia Sciuto preoccupa “la via della categorizzazione identitaria invece di quella dell’universalismo egualitario”.
Lgbtqi+..:davvero serve, per tutelare dall’odio le persone transessuali e omosessuali, aggiungere lettere dell’alfabeto ad una sigla che seziona di fatto il caleidoscopio umano tanto da creare mini enclaves identitarie e categorie che assomigliano più all’ossessiva appartenenza territoriale cara ai leghisti secessionisti del ‘prima il nord’ e ‘prima gli italiani’ piuttosto che ad una moltitudine umana che vuole ragionare su sentimenti, sessualità e politica? Una legge scritta male, e non discussa abbastanza con chi ne vuole ragionare, non può essere una buona legge, né una politica è una buona politica se non ascolta le critiche. Non c’è dubbio che sia gratificante il consenso dei vip via social e tv, ma chi fa politica dovrebbe sapere che ciò che alla fine resterà non saranno i like su facebook, ma la memoria del confronto, (o la sua assenza) soprattutto con chi avanza critiche costruttive.
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