Il Cuore Allegro di Viola Lo Moro, emozioni rannicchiate all'ombra
Il pungente esordio poetico di Viola Lo Moro, attivista femminista, socia della libreria delle donne di Roma, Tuba, e co-fondatrice del festival delle scrittrici InQuiete.
Martedi, 26/07/2022 - 'Cuore allegro' è una stanza dove permangono ombre. In tal senso, l’esergo di Antonella Anedda è, come rare volte accade, la sintesi-avvertenza perfetta di quanto seguirà: “Ora solo il linguaggio può ridire quei gesti/scriverne piano ripetendo l’ardore con cautela/fissando perché restino ancora in questa stanza/le grandi ombre di allora”. Viola Lo Moro ripete infatti l’ardore con cautela e celebra in questi versi il potere ineffabile della parola/linguaggio che fissa assenze, rendendole presenze perpetue, condannandole al non riposo e condannando sé stessa a trattenerle.
Tra le pagine di questa silloge, pubblicata da Giulio Perrone, aleggia proprio un forte senso di permanenza. Lo si respira, incagliato in un sapore di compiuto che non vuole compiersi, in distacchi che restano appesi.
Sono residui, detriti, dove persino “l’inconscio è un cesto colmo di feti prematuri”. Sguardi impigliati, respiri stanchi, “flebo metronomo”, gocce che si susseguono lente a stimolare un battito, un respiro, dove invece tutto ciò che si rileva è un avvertimento: “Del tuo affanno è rimasto/un monito da comodino”.
Non è un caso che, a introdurre i palpiti di questo cuore allegro, ci siano le incantevoli impressioni di Elvira Seminara, un’artista sopraffina che scrive poesia in forma di narrazione, imbastendo versi nei suoi romanzi con la stessa luminosa abilità con cui abbina i tessuti dei suoi abiti. La “cantascorie” – come si è definita – la ricamatrice del riuso, che di intrecci di parole e cose è una sfavillante maestra.
In una danza scomposta tra la vita e la morte, Viola Lo Moro porta con sé oggetti e immagini, luci e richieste: “Tieni il cuore allegro” diventa una promessa dalle forme sconosciute, come un corpo estraneo che non si sa come maneggiare, ma con cui si è certi di dover dialogare, in un confronto senza veli, senza menzogne.
È un gioco di equilibrio pericolante, crollare o restare in piedi, trattenere o lasciar andare: “Chi resiste alla gravità può forse tentare/di sopravvivere”. E ancora: “Questa morte è presenza/più dei vivi più dei morti/dei lontani degli assenti”. Una morte viva e imponente, cui poggiarsi per ridefinire i propri confini: “spero/di farmi ancora mia/con te.”
Gli oggetti sono protagonisti viventi e ingombranti, che rivendicano il loro spazio; tapparelle, antenne, tubi e fili si impongono all’autrice in modo ineludibile: “(…) ora sono costretta/a guardare l’ostinazione/degli oggetti/indifferenti e screpolati/come me”. Lo sguardo della scrittrice vi si posa, come su piante e corpi, con la medesima costernata curiosità, avvertendo l’eco roboante della solitudine.
Anche l’amore qui è ombra che resta, si struscia sulle pareti, si veste di buio. Ed è nel riposo delle amanti che Viola Lo Moro lo scorge, nitido, nudo, impietoso: “è il sonno che arriva noncurante/i muscoli tesi nell’atto feroce/del tenersi insieme”. Un amore sensuale, concreto, vivido, che è roccia e saliva, bocca e odore e, di nuovo, straziante rievocazione: “Ricordami come è stato/entrare a mani piene/ nella tua bocca spalancata”.
Sono intrecci perduti, percorsi interrotti, parole ammutolite: “ma tu non potevi non volevi non/volevi non potevi/con me affrontare il cammino”. Fino al magnifico “Nel luogo immobile/della parola che non ti ho detto/si è compiuta la strage/ delle altre”.
Sono versi scritti da un “io torrente”, che trasporta con sé volti che tornano a bussare dentro, trascina voci rimaste a riva, e qui riafferrate.
Come suggerito dalla citazione di Virginia Woolf che accompagna all’ultima parte, queste pagine sono abitate da essenze sedute, da astrazioni create dall’artista, “(…) come per rimproverarla d’esser scomparsa, ed essendo scomparsa, ora di tornare”. Spettri insomma, risucchiati voluttuosamente, perché è questo che compie la letteratura, sublimare quello che facciamo tutte/i: costruiamo fantasmi giganti su figure molto piccole, inchiodiamo alla parete dei nostri pensieri sorrisi scomparsi conservandoli vividi dentro teche soffocanti, decidiamo che è amore un grumo di briciole. Tentando di mantenere, possibilmente, il cuore allegro.
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