Martedi, 24/08/2021 - Interessante analisi di Giorgia Serughetti sul quotidiano “Domani” dal titolo “Per proteggere le donne afgane non bastano corridoi umanitari”, che ringrazio perché mi ha fatto accendere una lampadina dentro, a riflettere e a far nascere alcune considerazioni su un piano parallelo.
I corridoi umanitari sono stati invocati, in questi giorni, per l’orrore e l’incredulità verso un ritorno dei taliban in Afghanistan, con il loro retaggio di misoginia, medievale concezione e applicazione della religione, con l’oscurantismo di un gruppo che ritiene di essere il solo, unico e indiscusso depositario della “vera”, ortodossa interpretazione del proprio testo religioso. Naturalmente, se si ritiene di essere i detentori dell’ortodossia e quindi del “modo in cui DEVE andare la vita”, va da sé che tutte le altre visioni e interpretazioni sono, automaticamente, o false o pericolose o da cancellare in toto come dissacranti ed empie.
Qui a Occidente, idee e comportamenti come quelli dei taliban risultano irricevibili e irragionevoli. Anzi, diciamolo francamente, proprio fuori dal mondo. Qualcosa, però, in questi venti anni di presenza occidentale, è cambiata anche in Afghanistan. Modelli, libertà, stili di esistenza, concezioni di una alternativa di vita sono entrati nella gamma delle possibilità fra le quali poter scegliere, direttamente o indirettamente, e hanno messo radici.
I taliban di oggi, benché apparentemente tecnologicamente meglio organizzati e comunicativamente più aggiornati in tema di uso dei social (avranno imparato dai loro “nemici” dell’Isis?), si trovano pertanto di fronte una popolazione di donne e di giovani molto diversa da quella di venti anni fa. La storia si ripete, ma questa volta ci sono elementi di novità di cui tenere conto.
Non ultime le donne. Giovani, istruite, determinate ad avere un futuro personale e professionale diverso da quello che sognano per loro gli studenti delle madrasa (i.e. la scuola religiosa).
Certamente non tutto è “rose e fiori nelle canne dei fucili”. Perché il pericolo per le donne, un po’ ovunque in tutto il mondo viene dal mondo esterno, ma spesso e volentieri principalmente dall’interno della propria casa e della propria famiglia. Ora abbiamo l’Afghanistan davanti agli occhi e sugli schermi dei telegiornali, ma anche là dove non arrivano la TV, i social e i giornali, le cose non vanno poi tanto diversamente (ahinoi!).
E dice bene, Gorgia Serughetti, riportando le parole di Igiaba Scego “le donne non vogliono essere salvate, vogliono essere appoggiate nella loro battaglia di autodeterminazione”. Infatti, come stiamo vedendo dai telegiornali in questi giorni, desiderano essere fisicamente messe in salvo per poter poi realizzare il disegno di vita che hanno in mente per sé (per es. studiare, viaggiare, avere una professione etc).
E credo che sia tutto intorno a questa frase che ruoti il destino, non scritto ma autodeterminato, delle donne: nel decidere per sé.
La questione è che per prendere una tale decisione serve un passo importante “interno” o intrapsichico che le porti a seguire alcuni step: riuscire a contemplare una tale ipotesi, avere il desiderio di passare dall’ipotesi alla sua attuazione, pianificare come farlo, metterlo in atto.
I freni, spesso, non sono nella burocrazia e negli impedimenti esterni. O non sono solo quelli. La zavorra principale è mentale ed emotiva: la cultura, i legami famigliari, le interazioni e i modelli anche “malati o manipolatori” che sono gli unici che conoscono e sperimentano, un’autostima ridotta al lumicino, un senso di inadeguatezza e di “incapacità appresa” che fa da corollario alla loro vita dal momento della nascita.
È la gabbia mentale il primo e più resistente ostacolo.
Le leggi e le “aperture” per varcare i confini fisici dell’Europa non sono poi completamente e inesorabilmente impermeabili per le donne vittime di maltrattamenti in famiglia e/o perseguitate per il loro sesso (per es. FGM, violenze domestiche, impedimenti alla libertà personale, matrimoni forzati, norme persecutorie verso le lesbiche etc). Esistono e, per fortuna ci sono, dei passepartout significativi. Nel documento del Parlamento Europeo del 2012 (si, risale a qualche annetto fa!) denominato “Gender Related Asylum Claims in Europe” è specificata, fra le causali che consentono di chiedere il diritto d’asilo in Europa, proprio la persecuzione a danno delle donne per il loro sesso. È riportato specificamente anche il caso dell’Italia, fra i modelli virtuosi, in quanto non costituisce un impedimento alla concessione dell’asilo il fatto che, nel Paesi d’origine, la donna non abbia fatto ricorso alla protezione da parte degli organismi nazionali (quando contemplata) e, naturalmente, quando questa protezione sia addirittura assente.
Le donne che decidono di lasciare il proprio Paese in ragione dei torti e delle vessazioni loro riservate in base al sesso di nascita (o “genere”, parola utilizzata indifferentemente nel testo e in molti accordi internazionali) possono quindi appellarsi a questa protezione europea.
Quello che accade e che è degno di riflessione è che queste motivazioni vengano considerate come “ragioni personali”. Ossia, come “casi singoli”, piuttosto che come manifestazione di un crimine generalizzato, contro una intera categorie di persone, le donne appunto. Può essere interessante approfondire l’argomento leggendo queste rilevazione dell’UNHCR.
Tornando al caso attuale delle donne afgane – che in questo pensieroso secondo agosto in compagnia del Covid ha riacceso i riflettori sulle discriminazioni per sesso di cui sono vittime le donne e sulla molteplicità delle forme che queste discriminazioni assumono alle diverse latitudini – utilizzo un’iperbole e mi chiedo: “e se avesse ragione Salvini, quando dice di aprire corridoi umanitari per donne e bambine e di tenere fuori gli uomini?”. Il “perché” di questa sua affermazione del Senatore è legata al fatto che, consentendo agli uomini di entrare in Europa, si corre il rischio di aprire le porte a potenziali terroristi travestiti da perseguitati. Inoltre, è evidente che chi rischia di più, sotto il regime dei taliban, è proprio il sesso femminile, visto come il portato di tutto il male e di tutto ciò che di diabolico c’è nel mondo, e che quindi vanno messe in salvo per prime e in gran fretta. Il punto è che le donne sono vittime del fatto di essere “femmine”, anche e immediatamente all’interno delle famiglie e della vita domestica. Anzi, spesso, principalmente lì, perché la cerchia dei rapporti primari è proprio quella che è alla base della socializzazione e dell’educazione di genere e che sostiene l’impalcatura della società misogina. E se fosse meglio, per le donne, ragazze e bambine afgane venire in Occidente lontano dal controllo e dal condizionamento dei maschi adulti della famiglia?
Insomma, continuare a tenere i confini europei accoglienti per chi, come le donne vittime di “violenza privata” ha bisogno di tutela e di trovare un terreno fertile per vivere (meglio), mettendo bene in chiaro che restano invece fuori dal perimetro idee, comportamenti, aspettative, modelli che sono il fondamento (marcio), su cui poggiano la “violenza privata” e quella “pubblica” delle realtà e degli Stati misogini. Fondamenta che poi, per paradosso (o per contrappasso?), hanno conseguenze negative anche per chi pensa di essere “immune” e di godere della propria posizione di privilegio (maschile).
Pensate che questa riflessione sia affiorata o stia affiorando nella mente degli uomini afgani che si accalcano all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, con o senza le loro famiglie? Non so. Ho qualche dubbio…..
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