Giovedi, 05/05/2022 - “Il Governo afferma che le autorità non possono evitare la perpetrazione di ogni singolo episodio di violenza domestica (il che costituisce il suo obiettivo finale), ma il fatto che alcuni episodi di violenza si producano non dimostra di per sé che il Governo è indifferente a questo problema.” Questa è stata una delle argomentazioni che lo Stato Italiano ha portato a difesa di sé stesso di fronte all’accusa di non aver protetto una donna, una madre, dalle ripetute violenze agite dal suo compagno nei suoi confronti e nei confronti dei loro figli; per non aver impedito che quell’uomo, quel padre, uccidesse suo figlio e tentasse di uccidere la sua compagna.
Perché si sa, se un fatto è imprevedibile allora non si può far niente per impedirlo, non ce ne possiamo rimproverare. Romina è stata uccisa dal suo ex compagno, Viviana è stata uccisa da suo marito, Sonia è stata uccisa dal suo compagno, Silvia è stata uccisa da suo marito, Angela è stata uccisa da suo marito. Sono i nomi di alcune delle donne uccise nelle ultime due settimane. Non vado oltre, e sono già troppe. Già una sarebbe troppa.
Dunque secondo il Governo italiano non è possibile prevedere, dicevamo, che un uomo uccida la sua compagna o ex. Eppure capita di continuo. Ma se capita così di continuo vuol dire che c’è un problema strutturale sul quale lo Stato di cui queste donne erano cittadine deve necessariamente occuparsi. Ma se ne deve occupare comprendendo che tipo di problema sia.
Lo scorso 7 aprile la Corte europea dei diritti umani ha nuovamente condannato l’Italia per aver violato l’obbligo di cui all’articolo 2 della Convenzione, per aver cioè omesso di adottare tutte le misure necessarie a proteggere il diritto alla vita dei suoi cittadini e delle sue cittadine. Il diritto alla vita. Curiosamente mi sembra che di diritto alla vita si parli solo per contestare alle donne il diritto all’aborto.
Annalisa Landi aveva denunciato più volte la violenza agita dal suo compagno, talmente tante volte che come i nomi delle donne uccise sono troppe per essere riassunte qui. I Carabinieri a cui si era rivolta hanno più volte relazionato e segnalato alla Procura la situazione di pericolo in cui vivevano Annalisa e i suoi figli, chiedendo di applicare nei confronti dell’uomo una misura cautelare che li proteggesse. Uomo che era stato già violento in passato anche contro la sua ex compagna. “Uno degli episodi più violenti si era verificato quando la ricorrente aveva tentato di esporre un’opinione personale con la quale N.P. non era d'accordo. A quel punto, l'uomo l’aveva presa al collo scaraventandola sul divano.” Il diritto di parola. Oggi le ragazze non sanno che se possono parlare in pubblico devono ringraziare una femminista; eppure esprimere la nostra opinione rimane in alcuni casi ancora difficile e pericoloso.
Ricevute le plurime segnalazioni dei Carabinieri, la Procura una volta ha aperto un procedimento per molestie, archiviato; un’altra volta un procedimento per maltrattamenti. Senza adottare in nessun caso alcuna misura cautelare nei confronti dell’uomo. «Ti ammazzo» o « ti ammazzo i bambini» aveva minacciato lui. Ma per lo Stato italiano l’omicidio che ne è seguito era imprevedibile.
Era il 14 settembre 2018: “N.P. fu disturbato dal rumore provocato da suo figlio e da una telefonata che la ricorrente aveva ricevuto. Si alterò e afferrò il cellulare di quest’ultima e andò a prendere un coltello. In quel momento la ricorrente prese i bambini e si rifugiò sul balcone. N.P. si avvicinò al balcone e, dopo aver ferito il cane con il coltello, afferrò V. per i capelli e la scaraventò contro il muro. Tentò poi di afferrare M. che era in braccio a sua madre. Rientrò in cucina, cercò un altro coltello e si gettò sulla ricorrente ferendola al viso e sul corpo. L’interessata cadde per terra e posò M. sul pavimento. In quel momento N.P. inflisse diverse coltellate al bambino provocando in tal modo il suo decesso.”
A questo punto un processo c’è stato, e l’assassino fu condannato a vent’anni di reclusione per omicidio, tentato omicidio e maltrattamenti. E già forse sull’entità di questa pena ci sarebbe da discutere.
Ma non è di questo che Annalisa Landi si è lamentata di fronte alla Corte europea: Annalisa non si è lamentata di come è andato questo processo, ma di tutti i processi che sono mancati prima.
Il GREVIO è l’organo incaricato di monitorare l’attuazione da parte degli Stati della Convenzione di Istanbul, la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. Nel suo rapporto del 2020 ha esortato “vivamente” le autorità italiane a “dar seguito al proprio impegno per consentire una rapida gestione delle indagini e dei procedimenti penali nei casi di violenza basata sul genere, garantendo al tempo stesso che le misure adottate a tal fine siano supportate da adeguati finanziamenti; garantire che la condanna in casi di violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, sia commisurata alla gravità del reato e che rispetti la funzione deterrente della pena.” Al bar si dice che conviene far fuori la moglie piuttosto che separarsi. Non mi sembra che lo Stato sia riuscito ad affermare questa gran deterrenza.
Il GREVIO sollecita anche le autorità italiane affinché “mettano fine alle pratiche dei tribunali civili che assimilano la violenza a situazioni di conflitto e tentano di raggiungere accordi tra la vittima e l'autore della violenza invece di valutare le esigenze della vittima in termini di sicurezza”. Conflitto. Lite. Quanto sono più comode queste parole – al bar quanto in tribunale – per nascondere la violenza maschile? Sono molto più comode. Ma sono false. Colpevolmente false. Anzi, dolosamente false. Si parlava di conflittualità nei provvedimenti che imposero al figlio di Antonella Penati di incontrare suo padre, consentendo che lui lo uccidesse. Si parlava di conflittualità nei provvedimenti che hanno allontanato suo figlio da Laura Massaro, definita madre alienante, e che solo adesso è riuscita a trovare un po’ di giustizia in un’aula di giustizia. Tra pochi anni suo figlio diventerà maggiorenne e avrà vissuto gran parte della sua infanzia vittima della violenza di suo padre e del suo Stato.
La Corte europea ha osservato nuovamente – come aveva già fatto in passato – che il quadro giuridico italiano era idoneo ad assicurare la protezione di Annalisa e dei sui figli, con buona pace di chi si ostina a chiedere e promettere nuove leggi dopo ogni femminicidio. La Corte ha osservato che “mentre i carabinieri hanno reagito senza indugio alla denuncia presentata”, “i procuratori, invece, informati più volte dai carabinieri, sono rimasti inerti. […] I procuratori non hanno dimostrato, nell’esaminare le denunce della ricorrente, di aver preso coscienza del carattere e della dinamica specifici della violenza domestica, sebbene fossero presenti tutti gli indizi. […] Le autorità non hanno considerato che, trattandosi di una situazione di violenza domestica, le denunce meritavano un intervento attivo. […] Con la loro inazione, hanno permesso a N.P. di continuare a minacciarla, molestarla e aggredirla senza ostacoli e in totale impunità”. Il carattere e la dinamica specifici della violenza domestica: cioè, evidenzia la Corte, la violenza maschile commessa nel contesto domestico ha delle caratteristiche peculiari che non consentono di trattarla come qualsiasi altro reato. Ma per capire questo, per prendere coscienza di questo, è indispensabile qualcosa che invece manca nel nostro contesto giudiziario: la formazione. Ce l’ha detto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio nella sua relazione del giugno scorso. Ed è evidente che fino a quando non si prende atto dell’esistenza di un problema sarà impossibile risolverlo.
“Alla luce degli elementi sopra esposti, la Corte ritiene che le autorità nazionali sapessero o avrebbero dovuto sapere che esisteva un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli a causa delle violenze commesse da N.P., e che avessero l'obbligo di valutare il rischio di reiterazione di tali violenze, nonché di adottare misure adeguate e sufficienti per la protezione della ricorrente e dei suoi figli. Tuttavia esse non hanno rispettato tale obbligo, dato che non hanno reagito né «immediatamente», come richiesto nei casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento.” Questa è la condanna della Corte europea nei confronti dello Stato italiano per non aver protetto il diritto alla vita di Annalisa e dei suoi figli. Sapevano o avrebbero dovuto sapere. Non esiste giustificazione: così come ignorantia legis non excusat, neanche l’ignoranza su cos’è la violenza di genere può essere scusata. Sapevano o avrebbero dovuto sapere, queste sono le parole che mi hanno spinta a riflettere e a scrivere di questa sentenza. Volevo riportare solo queste parole, perché le reputo macigni. Ma poi me ne sono venute fuori molte altre. Sapevano o avrebbero dovuto sapere che la violenza maschile non è conflitto, non è lite, non è un reato come gli altri, non può essere risolta con la legge, richiede di essere compresa e studiata nella sua profondità culturale di cui tutte e tutti facciamo parte per essere estirpata. Sapevano o avrebbero dovuto sapere.
Annalisa Landi è una giovane donna, è nata nel 1988, pochi anni dopo di me, e mi fa molta impressione pensare che una donna più giovane di me abbia già vissuto otto anni con un uomo violento, abbia visto morire suo figlio, abbia rischiato di morire ella stessa, e abbia dovuto ricorrere alla Corte europea dei diritti umani per veder dichiarare che il suo Stato nulla ha fatto per proteggere lei e i suoi figli dalla violenza di un uomo. È troppo. Sarebbe troppo a qualunque età. Non possiamo raccontare alle giovani ragazze che sono nate in un’epoca migliore delle loro nonne, se una ragazza di 34 anni deve affrontare tutto questo. Non è un Paese per donne, viene da dire. Potrebbe esserlo, dovrebbe esserlo. Dovrebbe essere un Paese che tutela i diritti e la vita di tutte le sue cittadine e di tutti i suoi cittadini. Ma non è così. Lo diventerà?
Un’ultima sollecitazione che colpisce del rapporto GREVIO, riportata nella sentenza della Corte europea, è l’invito a considerare “l’ipotesi di introdurre un sistema, come ad esempio un meccanismo di revisione critica dell'omicidio, per analizzare tutti i casi di omicidio di donne basate sul genere-femminicidio, al fine di prevenirli in futuro, tutelando la sicurezza delle donne e obbligando a rispondere sia gli autori delle violenze, sia le varie organizzazioni che sono entrate in contatto con le parti.” Una sorta di esame di coscienza, quindi: dove abbiamo sbagliato? Sarebbe molto produttivo, almeno secondo me: si comprenderebbe finalmente che ogni femminicidio non è isolato dall’altro, ma fa parte di un sistema culturale e sociale che continua a rifiutare la libertà delle donne, anche se sulla carta ne riconosce la parità di diritti. Ma per fare un esame di coscienza è necessario avere una coscienza. E in questo caso il pensiero va a Marianna Manduca, che aveva denunciato suo marito dodici volte prima che lui la uccidesse; nonostante questo i tribunali italiani si sono rimpallati la responsabilità per non averla protetta (e per aver affidato i suoi figli al padre) finché è stato il Governo di Giuseppe Conte, con una transazione, a porre fine a quell’impressionante cumulo di sentenze contrastanti affermando che «lo Stato deve avere il coraggio di riconoscere i propri errori e di trarne le conseguenze assumendosene tutte le responsabilità».
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