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Il coraggio di innovare<BR>

Il coraggio di innovare

Sfide del presente - Reti e relazioni vanno ricostituite per resistere alle sconfitte del “divide et impera”

Giancarla Codrignani Lunedi, 17/05/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2010

Come avranno fatto Lisistrata e le altre a mettersi d'accordo sullo sciopero generale femminile dei letti per obbligare gli uomini a desistere dalla follia della guerra? Forse era stata proprio la disperazione della guerra a renderle determinate e unitarie...

Infatti lo slogan "uniti si vince" non ha mai persuaso le minoranze, sempre ostili alla militarizzazione del consenso prodotta da chi ha o mira ad avere il potere. Oggi, da cittadine che condividono con gli uomini la responsabilità democratica, vediamo con qualche insofferenza che chi non è berlusconiano si adopera sostanzialmente per farlo vincere, gli uni contrapponendoglisi con proposte perfino serie, ma irrealizzabili se si è pochi, gli altri cercando di mediare a partire dalle proposte altrui, prassi incomprensibile da chi non ha nemmeno un posto in piedi dietro il tavolo da gioco per fare segnali.

Come donne, pur non essendo minoranza, non usciamo dalla tradizione. Sia politicamente perché "teniamo" per i partiti come i maschi, contrapponendo il Milan all'Inter o alla Juve; sia perfino in base a una logica femminista più o meno alternativa.

Forse tendiamo alla divisione e alla frammentazione più di loro. Una ragione di fondo risiede nella povertà. Suppongo che in ogni città, anche medio-piccola, ci siano gruppi di donne che si trovano a parlare di sé, a fare lettura, scrittura, dialogo con le immigrate e perfino alcune che fanno le signore prendendo un tè non solo per parlare di moda. Non dimentichiamo le donne dei partiti, dei sindacati e - perché no? - delle chiese, che, quando riescono a esaurire i compiti politici apparentemente neutri, pensano di stare un poco insieme da bravo genere femminile che pensa a sé dopo tutti gli altri (e di solito gli vengono in mente solo proposte a sostegno di una politica non loro). Per raccogliere le fila occorre l'emergenza: allora funziona il legame intuitivo e si fanno anche i cortei quando i governi ti vietano l'aborto o (meno) ti negano i servizi.

Ogni tanto, nei diversi paesi, a qualcuna viene in mente di fondare un "partito delle donne". Non riesce mai. I costi, soprattutto su piano nazionale, sono impossibili e il termine "mecenate", che non è mai stato femminile, non esiste più neppure al maschile, perché non esistono benefattori che non esigano il rispetto (parola aperta anche alla dizione mafiosa) delle loro lobbies e dei loro interessi.

Amen? Forse sì, ma forse anche no.

Intanto da quando c'è Internet l'espressione "fare rete" apre una possibilità al "fare rete" da noi usata già prima per dire "fare relazione", "comunicare fra noi". Si tratta di una prospettiva che non è ancora colta se non dai più furbetti nella sua valenza politica. Anche tra i politici solo pochi si sono accorti che i manifesti o i depliant nelle buchette contano ormai pochissimo. Personalmente apprezzo molto Debora Serracchiani per il suo coraggio non solo nelle proposte, ma anche nell'innovazione: per la sua campagna elettorale europea fece uno spot delizioso, di pochi minuti, colorato e pieno di contenuti quale non ho ritrovato in nessun altro sito politico. I leader del centro-sinistra - nonostante tutto quello che hanno detto della strategia elettorale di Obama - non arrivano a crearsi un elettorato web neppure se Grillo gli sottrae i voti giovani. Se perfino Berlusconi tardivamente è arrivato dopo le regionali a comparire su Facebook, si annunciano nuove catastrofi.

Come donne anche per le reti elettroniche abbiamo poche chances. Molte di noi sono bravissime tecnicamente, ma nessuna ha la possibilità di conoscere l'universo dei gruppi. Torna in gioco la voce povertà, estensibile anche alla conoscenza delle microrealtà, che, nel femminile, sono essenziali.

Solo porte chiuse, allora? Guardiamoci alle spalle e vediamo di recuperare dalle esperienze passate. Le amiche dell'Udi mi perdonino se do una lettura tutta personale della loro storia, anche se me lo posso permettere pensando ai tempi in cui non mi erano abituali i luoghi della sinistra e fu proprio l'Udi l'ambiente organizzato di cui venni a far parte. Personalmente mi sembra che le cose siano andate così: le donne di sinistra avevano anche allora una marcia in più dei loro uomini e, pur introiettando le divisioni letali fra socialisti e comunisti, cercavano sia di mantenere una qualche unità della sinistra, sia, soprattutto, di avere uno spazio proprio in cui esprimere idee che, più avanzate non solo sulle questioni di genere, venivano affermate dall'Udi e, puntualmente, l'anno dopo, approdavano alle feste dell'Unità. Poi, l'affermarsi del pensiero femminista indusse l'Udi a reclamare la propria autonomia, ovviamente non condivisa dal Pci che confuse (forse non senza qualche compiacimento) l'indipendenza con lo scioglimento. Ma non condivisa neppure da molte compagne della "vecchia guardia". L'Udi entrò così nel circuito del movimento femminista, ma a ranghi ridotti, autofinanziandosi, suscitando poca simpatia tra le femministe ostili al connubio con la politica. Ma la conseguenza più grave fu la perdita di quello che era stato il requisito più importante della sua peculiare funzione, che non era quella di diventare una scuola di pensiero tra le altre, ma di essere l'unica associazione in possesso di sedi in tutte le città, almeno grandi e medie, e di poter verificare il senso delle "differenze fra noi" su piano nazionale. Questa fu una perdita, perché il collegamento venne meno, senza mantenere la propria progettualità all'interno dell'osservanza ideologica del femminismo: a mio avviso anche allora il problema non era se sputare o no su Hegel oppure parlare di empowerment. Si poteva cercare la possibilità di continuare uno stile più confacente sia alle lavoratrici sia alle intellettuali, alle quindicenni come alle pensionate. Offrire, insomma, una componente del femminismo non competitiva sul piano intellettuale, ma di decantazione delle innovazioni che avanzavano nelle realtà plurali del genere. In quegli anni, anche se non arrivavano più i finanziamenti dei partiti, c'era una presenza dell'Udi sul territorio a cui non sarebbe mancato né l'appoggio istituzionale né la tenacia delle donne nel mantenere in vita le sedi locali.

Oggi, a prescindere dalle mie opinioni, occorre prendere atto che le donne faticano di più per tutta la serie di ragioni che purtroppo conosciamo tutte. Ma proprio per questo occorre chiedersi se tanto il femminismo dell'intellighenzia, quanto le politiche di genere siano in grado di pensare a come farci uscire da un impasse così pesante: vivere alla giornata o fare localmente quel che si può nelle situazioni date non basta... Anche perché non abbiamo davanti solo teorie elitarie con cui misurarci, ma restaurazioni di sistema che riguardano tutte.





(17 maggio 2010)

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