All’inizio del Novecento la scrittrice ha il coraggio di denunciare la violenza domestica subita e la mentalità retriva e ipocrita che l’ha generata. Oggi, a più di un secolo di distanza, stiamo ancora aspettando interventi legislativi
Mercoledi, 29/05/2013 - Nel 1906, Sibilla Aleramo pubblica il romanzo autobiografico “Una donna”(Ed. Feltrinelli, 2013). Rappresenta una lucida testimonianza della cultura della società italiana di fine Otto inizi Novecento. La donna era ancora un accessorio del capofamiglia, un passaggio di testimone dal padre al marito. La scrittura a tratti ancora ottocentesca viene rinnovata dallo sguardo disincantato e moderno di Aleramo. Le sue pagine scrutano il perbenismo e l’ipocrisia del legame matrimoniale, la crisi della famiglia borghese pervasa da una mentalità retriva e bigotta. Le donne sembrano destinate a ripetere di madre in figlia il medesimo destino di afflizione e rinuncia. L’indagine introspettiva e conoscitiva di un io lacerato valica così i confini autobiografici e si fa arte.
“ L’amore per mio padre mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma per il babbo avevo un’adorazione illimitata”. Così esordisce la protagonista nella prima pagina, mentre ripercorre la sua prima infanzia. E continua: “ … un istinto mi faceva ritenere provvidenziale il suo fascino. Nessuno gli somigliava: egli sapeva tutto e aveva sempre ragione”. Lei, la figlia preferita alle due sorelline e al fratello, prega: “Signore, fatemi diventare grande e brava, a consolazione dei miei genitori”. Studia da autodidatta dopo la scuola elementare. Mai un ago in mano, niente faccende di casa. Lei che non si sarebbe mai maritata perché il matrimonio era un’istituzione sbagliata, come ripeteva sempre il padre. Sarebbe stata felice solo continuando la sua vita di lavoro libero, di impiegata, tra gli operai della ditta affidata al padre, conforme ai suoi gusti e alla sua natura. Ma il padre esemplare, raggiante ben presto si trasfigura in un oggetto d’orrore, spietato, cupo, impenetrabile, iroso verso la moglie. Un padre ormai lontano, staccato dalla sua vita. E lei comincia a riconoscersi fragile come sua madre, nella stessa rassegnazione al destino. La madre sofferente e debole , mentre sente abbattersi sulla figlia la sua stessa miseria, è solo capace di accettare dal marito brandelli di affetto. “Amare, sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne”.
Anche la protagonista percepisce la sua breve vita come “un carcere strano dove tutto era vano, la gioia e il dolore, lo sforzo e la ribellione: unica nobiltà la rassegnazione”. Sposata a sedici anni e mezzo con l’uomo che le aveva usato violenza, riguardo al marito, scriverà: “dal suo canto penso m’amasse un po’come una cosa sua, una proprietà”. “…mi era grato, la certezza ch’io fossi legata, che io l’amassi, che mi sentissi cosa sua”. Il marito, con il suo affetto egoistico e irruento di una gelosia bestiale, continua ad abbattere su di lei una violenza ferina primitiva. Solo la nascita del figlio, dopo un altro mai nato, riuscirà a colmare i suoi giorni di una ebrezza incontenibile. Vuole essere all’altezza di una madre. E sarà proprio il figlio a generare in lei idee di scrittura. Pubblicherà articoli, recensioni e desidererà scrivere anche un romanzo, quello della sua vita. Insofferente, il marito le numera i fogli, brucia nel fuoco i suoi scritti perché non vengano pubblicati e si mette a frugare tra le sue carte. Le strappa il vestito, la sbatte sul pavimento, la percuote. “Il mio corpo, un povero involucro inanimato … come un oggetto immondo”. Ancora: “Avevo rinunciato a me stessa”. In altri scritti successivi, confesserà un’altra violenza, quella del suo compagno scrittore e letterato Giovanni Cena, capo redattore della prestigiosa rivista “Nuova Antologia”. Pretenderà di apporre per lei, alla sua opera di verità, tagli e correzioni.
Come donna si troverà nella stessa spirale che ha spinto la madre a cercare, folle, la morte. Mentre lei, figlia, troverà un’àncora nel suo viaggio alla ricerca di se stessa, rifuggendo gli inganni delle falsità. La vita esterna doveva restare intatta, esaltata a voce alta, gli sprezzamenti invece consentiti solo in segreto. Ed ecco la ri-nascita. I libri, la salvezza. “ Mercé i libri io non ero più sola, ero un essere che intendeva ed assentiva e collaborava ad uno sforzo collettivo”. La consapevolezza che spesso il supplizio dell’umanità è figlio dell’ignoranza. E riconoscere con coraggio: “la buona madre non deve essere come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana”. La decisione di andarsene dalla casa del capo-famiglia. Lo strazio di lasciare il figlio. Il sacrificio estremo. Voler vivere, non più solo per lui, ma per sé, per tutti. Il rammarico per non aver suggerito per tempo la medesima scelta alla madre: “Obbedisci al comando della tua coscienza, rispetta soprattutto la tua dignità”.
Oggi, Terzo Millennio, si attende la proposta di legge di ratifica della Convenzione di Istanbul
Dieci giorni dopo la pubblicazione, il romanzo era già un caso letterario. Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, all’inizio del secolo scorso è tra le prime donne italiane a portare avanti rivendicazioni che ancora nel Terzo Millennio devono trovare attuazione. Passi avanti se ne sono fatti. Aleramo scrive quando le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi. Se sposate, tutte le scelte dovevano sottostare all’ “autorizzazione maritale”, anche per ottenere la separazione legale. Solo con la Riforma del diritto di famiglia, nel 1975, viene abolita la figura del capo-famiglia e riconosciuto il principio costituzionale dell’eguaglianza dei coniugi. Bisognerà attendere il 1981 per l’abrogazione dell’articolo di legge che consentiva il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”. Ma solo dal 1966 la Legge 15 febbraio N. 66 riconosce la violenza sessuale non più un reato contro la morale, ma un reato contro la persona.
Oggi si attende la proposta di legge di ratifica della Convenzione di Istanbul dell’ 11maggio 2011, in materia di “prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. La Convenzione punta l’attenzione sulla prevenzione. Significa che bisogna fare i conti con lo zoccolo duro di una cultura dominante maschile su cui porre fondamenta solide per una rinnovata mentalità in cui, prima di tutto, la diversità venga accettata. Vuol dire anche individuare, riconoscere, essere in grado di opporsi, altresì denunciare tutti quei segnali apparentemente trascurabili di violenza e sapervisi opporre. A cominciare dal prendere ferma posizione nei riguardi dell’immagine svilente e umiliante della donna presentata dai media. Perché una donna vilipesa è a un breve passo dal subire altri pericolosi carichi di violenza.
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