Parliamo di bioetica - Alla ricerca di un “ponte” che colleghi due narrazioni, quella del malato e quella del medico, dove poter condividere e dare un senso alla malattia e al dolore
Lugaro Chiara Lunedi, 23/05/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2011
Il tema del confine tra salute e malattia è un’esperienza che ci riguarda e ci coinvolge molto intimamente. Malattia e dolore, infatti, lungi dall’essere condizioni antinomiche e conflittuali si manifestano come “stati dell’essere”, eventi estremamente complessi e polimorfi di cui la sola dimensione biologica non esaurisce il senso.
Pur nella diversità delle storie di vita personali, vivere l'esistenza nella malattia significa vivere una progettualità di vita all'insegna del limite e nell'orizzonte della finitudine. Una vita che, tuttavia, non corrisponde all’“ideologia” della normalità e della salute come sinonimo di salvezza, ai sogni di libertà assoluta e di superamento di ogni limite, sia esso biologico o sociale, che la nostra cultura fortemente antropocentrica, ha potentemente sviluppato, tanto da investire la medicina di aspettative salvifiche.
La storia di M. è anche la storia di una malattia, la storia di un “sé nella malattia”, la storia che è somma delle storie di tante persone che attraversano un confine: quello della salute e della malattia, che è quello della normalità e della devianza, del buono e del cattivo, del dentro e del fuori.
Non è mai frutto di una scelta: M. non ha potuto scegliere, non solo se attraversare quel confine, ma neppure in quale modo, neppure quando, neppure con chi; come per tante altre persone la malattia irrompe anche per M. in un momento qualunque di una vita “normale”, nel “mondo della vita quotidiano”, costruito da oggetti, abitudini, azioni che diamo per scontati e che, appunto, ci confermano la nostra appartenenza ad uno specifico mondo condiviso, piuttosto che ad un altro.
M. studia, lavora, legge, frequenta la palestra, va in vacanza, fa l’amore, si occupa delle persone che ama, fa progetti per l’indomani e per il futuro.
Un apparentemente banale, ed inizialmente più che altro fastidioso, disturbo fisico si insinua nella sua vita costringendola ad interpellare diversi medici perché la diagnosi non è immediata e, nel frattempo, aumenta la gravità del disturbo che diventa sempre più invalidante e costituisce un vero e proprio ostacolo alle attività quotidiane.
Quando M. riceve la diagnosi della malattia, cronica e degenerativa, e di cui sono ancora in gran parte sconosciute sia l’eziologia sia l’evoluzione, non è preparata ad integrare questa “cosa” nella sua vita.
I sintomi regrediscono con i farmaci i cui “effetti collaterali”, ossia differenti forme di malessere, devono essere “accettati” in quanto “male minore” rispetto alla malattia e “transitori”, sebbene la transitorietà si riveli essere anche di alcuni mesi durante i quali essi si sovrappongono tra loro, si intrecciano, si alternano ma sono sempre presenti, di giorno e di notte, a “dare forma” al tempo, ai progetti, alle relazioni, allo stato d’animo di M..
M. riceve informazioni sulla sua malattia come si trattasse di una cosa a parte, “altro da sé”, che viene studiato, analizzato, interpretato, misurato, anche con l’aiuto di apparecchiature tecniche altamente sofisticate; M. assiste al processo di ricognizione di tutti gli elementi utili a seguire la malattia nel suo evolversi e a consentire una diagnosi puntuale ad ogni visita; ma, come ha scritto Umberto Galimberti, “sottesa non c’è una riflessione sulla vita in generale, ma solo una riflessione sulla malattia come entità clinica che ha un ‘decorso’, un ‘esito’, ma mai un ‘senso’”.
Quello che interessa alla medicina è il corpo di M., inteso come Korper (il corpo ‘oggetto’) e non come Leib (il corpo ‘vissuto’), perché “ospita” la malattia e può, quindi, fornire informazioni e descrizioni attendibili dei sintomi, soprattutto quando, grazie anche all’abile guida del medico, M. impara a selezionare quello che è interessante, adeguato, coerente e quindi meritevole di essere considerato, rispetto a tutta una serie di problematiche e di vissuti che non sono ritenuti pertinenti, perché non oggettivi né oggettivabili né coerenti con la tipologia della malattia.
Senza la possibilità di manifestare i propri sentimenti e le proprie paure, fin dal momento della diagnosi M. cristallizza alcuni comportamenti per ben aderire al “ruolo” di paziente, che è prestabilito e funzionale allo sguardo medico e che le impedisce di utilizzare tutte le sue energie e di essere duttile nel ricostruire sempre nuovi modelli di comportamento; deve imparare a separare se stessa dalla sua malattia, “nemico da combattere” anche con strategie di controllo come il “far finta di non averla” e il “vivere una vita normale”, questa evidentemente misurata esclusivamente su parametri di efficienza, di appropriatezza, di salute, di funzionalità.
M. non ha la possibilità di dialogare con la Sua malattia perché qualcun altro ha “preso” questa malattia e gliela “traduce”, con un linguaggio e secondo un modello prestabilito che opera in modo da rendere muto e svuotare di significato il bisogno di M. di capire e di conferire un senso a quello che le sta succedendo, alla Sua malattia.
Nel mondo di M. il monopolio della “verità” sulla sua malattia lo ha la scienza, la medicina, che l’antropologo Byron Good definisce acutamente “forma simbolica”. La medicina, che ha al centro del suo progetto la ricerca della “verità” della malattia, “costruisce” la realtà, dice Good, che diventa così per il paziente un territorio sconosciuto dove lui è, come ben chiarisce il bioeticista Hugo Tristram Engelhardt, uno “straniero in terra straniera”. Come tale non ha padronanza né dell’ambiente né della lingua né delle mappe, deve abbandonare il suo modo abituale di pensare e adattarsi ad aspettative e modelli culturali nuovi, in una condizione di costante precarietà e a rischio di vivere un’esistenza marginale.
Sganciando l’esperienza dalle dimensioni emotiva e spirituale la malattia muta l’esistenza di M. perché trasforma profondamente la percezione che lei ha di sé, produce una nuova dimensione di incertezza e di insicurezza che, in modo impercettibile ma costante, invade tutta la sua esistenza.
Al contrario delle società arcaiche, nelle quali dolore e malattia erano collocate in un ordine simbolico in cui tutte le cose erano scambiate per creare relazioni dotate di senso, oggi l’ideologia della libertà, dell’efficienza e del dominio colloca la malattia e il dolore in una dimensione che non permette la reciprocità e lo scambio.
Potrebbe essere la narrazione il “ponte” che collega due mondi, il luogo di incontro di due narrazioni, quella del malato e quella del medico, dove poter condividere, tollerare e dare un senso alla malattia e al dolore facendo proprio quell’operazione che una certa ideologia della salute e della medicina ritiene inutile e scarsamente redditizia, ma che permette a M. di uscire dalla visione monodimensionale del suo problema, di riappropriarsi della sua complessità e di collegare e ricomporre le esperienze nella propria biografia.
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