Venerdi, 17/01/2014 - In questi giorni in cui sulla stampa si è scritto di tutto sul Ddl che sarebbe stato approvato dal Consiglio dei Ministri e su cui si starebbe lavorando in varie commissioni - perdonatemi, ma finché non sarà visibile qualcosa di ufficiale continuerò ad usare il condizionale - si è anche accennato a un art. 143 bis che sarebbe presente in quel Ddl.
Ora, il 143 bis che fin qui conosciamo è quello della legge di riforma parziale del diritto di famiglia del 1975, che appioppa alla donna coniugata l’onere di aggiungere al proprio cognome quello del marito e pertanto dei figli, per garantire l’unità familiare vagheggiata.
Sul perché non la si raggiunge affatto così ho già scritto altrove molto tempo fa (link nel primo commento). Qui m’interessa far notare che di art. 143 bis ne esiste un altro, che però al momento non ha valore di legge essendo contenuto nel Ddl n. 86, presentato in Senato nella XVI legislatura a firma di Vittoria Franco, Anna Finocchiaro e altri senatori.
Di conseguenza non escluderei che questo e non l’altro possa costituire il riferimento reale della notizia e che il consenso del cogenitore maschio, che tanto ci ha offese nel profondo quando ne abbiamo appreso dai media, sia quello mascherato da eguaglianza, presente nell’articolo che segue.
Stralcio dal documento del Senato.
«Art. 143-bis.1. - (Cognome dei figli di genitori coniugati) –
Ai figli di genitori coniugati è attribuito, nell’ordine, il cognome del padre e quello della madre. Se uno o entrambi i genitori hanno un doppio cognome, se ne considera soltanto il primo.
I coniugi possono stabilire un ordine diverso oppure decidere di attribuire al figlio il cognome del padre o della madre, con dichiarazione concorde resa all’ufficiale dello stato civile all’atto del matrimonio o, in mancanza, all’atto della registrazione della nascita del primo figlio.
Ai figli successivamente generati dai medesimi genitori è attribuito lo stesso cognome del primo figlio, anche se nato prima del matrimonio ma riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori».
Oh, ma che bello, abbiamo risolto! Siamo sicure che avremmo risolto davvero? Proviamo a fare qualche esempio pratico, partendo già dal doppio cognome di ciascun membro della coppia generante.
Padre Bianchi Rossi e Madre Verdi Blu.
Come da primo comma, se non viene espresso accordo differente avremo un
Figlio Bianchi Verdi
che una volta divenuto cogenitore darà luogo alla sequenza
Padre Bianchi Verdi e Madre Giallo Arancio.
Come da primo comma, se non viene espresso accordo differente avremo un
Figlio Bianchi Giallo
che una volta divenuto cogenitore darà luogo alla sequenza
Padre Bianchi Giallo e Madre Lilla Viola.
Come da primo comma, se non viene espresso accordo differente avremo un
Figlio Bianchi Lilla
che una volta divenuto cogenitore darà luogo a
Padre Bianchi Lilla… e così via.
Non accadrebbe affatto la stessa cosa, se Bianchi Verdi non fosse figlio ma figlia.
Certamente non abbiamo considerato nello schema la possibile inversione dei cognomi che qualcuno avrebbe potuto scegliere per il figlio, ma tale variante - come del resto la scelta di un solo cognome - può avvenire solo se Padre e non Madre vuole. In caso contrario la sequenza indicata conserva la sua validità, consentendo la mappatura d’una “stirpe”, declinata - ma guarda un po’ - giusto al maschile.
Qualcuno può spiegare in virtù di che cosa al genitore che non partorisce (come noto, il Padre) viene accordata un’alta probabilità di tramandare nel corso delle generazioni il suo cognome, mentre al genitore che porta in sé il figlio proprio e dell’altro (non sarà per caso la Madre?) è riservata la minore probabilità di “godere” di tale beneficio?
Meglio allora l’ordine alfabetico del progetto Garavini (Camera, Ddl 360), che però porta allo scoperto una cosa: ciò che sembra sia realmente temuto dai politici - e questo senza differenza di sesso - è prendere atto della strettissima relazione madre-figlio all’atto della nascita (relazione che si protrae con tali caratteristiche per giorni, se non mesi), ovvero nel momento in cui viene assegnato al figlio il cognome.
Ciò che si aggira e si evita è il dover fare i conti col maggiore coinvolgimento femminile, il dover riconoscere ufficialmente il potere generativo della donna.
Si dà per acquisito, in altri termini, che l’uomo non abbia ancora maturato dopo tanti secoli, la capacità di guardare in faccia la donna per quel che è e in virtù di tale incapacità conclamata gli si permette di continuare a non partire da sé, cioè dal vero, per sviluppare quella genitorialità attiva credibile che è invece la caratteristica vincente del nuovi padri norvegesi (trasmissione “Senza donne” di Iacona), praticata ancora oggi in Italia solo da un limitato numero di uomini. E non sarà forse un caso che la norma che ha reso obbligatorio per quei padri un lungo congedo di paternità è stata varata e applicata in un Paese in cui i figli prendono per regola il solo cognome materno, salvo diverso accordo dei genitori presentato entro sei mesi dalla nascita.
Tirando le somme del discorso, ciò che pensano sostanzialmente le politiche che hanno proposto e sostenuto il progetto citato è che non sia necessario partire dalla riflessione sull’identità femminile e fondare sulla coscienza femminile la norma, ma continuare a correre appresso all’identità maschile corrente, per ottenere un’equiparazione affannata al LOGOS primigenio e fallico del “PADRE”.
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