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Il Centro italiano femminile e la nuova presidente: Renata Natili Micheli

Il Centro italiano femminile e la nuova presidente: Renata Natili Micheli

Intervista alla neo eletta presidente del CIF

Lunedi, 12/03/2018 - La professoressa Renata Natili Micheli è stata recentemente eletta presidente del Centro Italiano Femminile (CIF) Prof.ssa, una organizzazione storica delle donne cattoliche italiane. Le abbiamo rivolto alcune domande.

Qual è la sua valutazione generale della situazione sociale dell'Italia in questa fase e delle donne in particolare?
È un momento non facile per il Paese. Stanno saltando le intermediazioni tra opinione pubblica e istituzioni; è in seria difficoltà il legame che connette, come dovrebbe essere, potere costituente e potere costituito, cioè l’insieme degli organismi rappresentativi che sono il volto concreto della democrazia, aldilà delle procedure e dei meccanismi. Si parla di società liquida, ma forse sarebbe meglio “racchiudere” il modo di vivere oggi in altre parole, più chiare: ciascuno tende a fare parte per sé solo, come direbbe Dante, a farsi cioè società e società a sé: quella del privato che ritiene di essere il centro del mondo. Non basta. Il sistema di protezione sociale del nostro Paese è, tra quelli europei, uno dei meno efficaci: la crescita del rischio di povertà per i giovani è aumentata in percentuali di due cifre ed è da ricondursi innanzitutto al generale e progressivo peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro. La maggiore o minore spesa da parte dei Comuni si traduce in maggiore o minore possibilità di accesso ai servizi territoriali, come gli asili nido e l’assistenza domiciliare. I contributi economici e le numerose opportunità di integrazione, conciliazione famiglia-lavoro, miglioramento della qualità della vita che sono offerte ai cittadini dai Comuni virtuosi, spesso situati al Centro-nord, mancano quasi completamente in vaste aree del Sud. Per la prima volta nel nostro Paese i figli stanno peggio dei padri. Nel quadro tratteggiato, le violenze sulle donne appalesano il divario tra enunciazioni di principio e inefficacia nella tutela dei diritti umani, svelandone l’origine sessuata. La maggiore difficoltà per le donne riguarda anche l’acquisizione di livelli di reddito medio e medio-basso, confermando l’ipotesi di un soffitto di cristallo che costringe la maggior parte delle occupate al di sotto dei livelli più alti di guadagno. Il modello attuale, ed è certo non consolante, mostra che il soffitto di cristallo è anche inclinato, nel senso che comincia a limitare le possibilità di crescita di guadagno per le occupate già a partire da livelli di reddito non troppo elevati e diventa via via più rilevante se si considerano redditi più alti. Allora che fare? Per poter uscire dalle risposte facili che ci indurrebbero ad auspicare una nuova fase di ribellione - o di ribellismo-, dobbiamo ricentrare la nostra attenzione sulla soggettività politica delle donne, che dovrebbe riguardare un’azione condivisa a realizzare concretamente la dichiarazione contenuta nell’art 3 della costituzione. Si deve a Teresa Mattei l’introduzione nella stessa del riferimento alle “situazioni di fatto” che rendono diverso per ogni soggetto il cammino verso condizioni effettive di parità. Teresa Mattei, in un vibrante intervento del 18 marzo 1947, sottolineava con ardore e passione che «in una società che da lungo tempo ormai ha imposto alla donna la parità dei doveri, che non le ha risparmiato nessuna durezza nella lotta per il pane, nella lotta per la vita e per il lavoro, in una società che ha fatto conoscere alla donna pesi di responsabilità e di sofferenza prima riservati normalmente solo all’uomo (…), salutiamo finalmente come un riconoscimento meritato e giusto l’affermazione della completa parità dei nostri diritti”. [….] vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere tutte le loro forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese. Per ciò riteniamo che il concetto informatore della lotta che abbiamo condotta per raggiungere la parità dei diritti, debba stare a base della nostra nuova Costituzione, rafforzarla, darle un orientamento sempre più sicuro. [….] Per questa ragione io torno a proporre che sia migliorata la forma del secondo comma nel seguente modo: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano “di fatto” – noi vogliamo che sia aggiunto – la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana”. Voi direte questo è un pleonasmo. Noi però riteniamo che occorra specificare “di fatto”».

Che futuro e che ruolo vede per il CIF in questo contesto?
L’associazione Cif, insieme ed accanto agli altri soggetti collettivi presenti nel Paese, nati a ridosso della fine del II conflitto mondiale, ma già operanti in pieno regime fascista sebbene nelle condizioni possibili, fin dal principio ha ritagliato il proprio ambito e ruolo operativo dentro i principi democratici della nostra Costituzione: quelli di solidarietà e di sussidiarietà. Ricordiamo che due delle 21 donne costituenti (cioè Maria De Unterrichter Jervolino e Maria Federici) sono state fondatrici e prime presidenti della nostra Associazione. Ancora. Il Cif è parte di quell’associazionismo cattolico che, nel dopoguerra, facendo proprio l’appello di Pio XII (Res tua agitur) e muovendosi sul doppio registro della ispirazione cattolica e di quella democratica, scelse la donna quale soggetto politico perché i principi costituzionali e cristiani di libertà e uguaglianza trovassero storia nella storia del nostro Paese.

Quale la valutazione dell'operato di Papa Francesco?
Il magistero di papa Francesco è una benedizione “per i vicini e per i lontani”. Ha aperto una nuova fase nella storia della Chiesa che, uscendo dalla fissità della definizione di societas perfecta, ha imboccato, senza esitazione, la strada aperta dal Concilio Vaticano II: fiducia nei confronti dei laici (Apostolicam Actuositatem) e fiducia nel mondo e negli uomini (Gaudium et Spes), questo sotto lo sguardo paterno-materno di Dio che ha “viscere di misericordia”. Non più esclusi e lontani, ma tutti cari al cuore di Dio e presenti al suo sguardo. Quale migliore attesa per la realizzazione dell’ecumenismo e della esortazione “Ut t unum cor et animam fecerat multitudinis credentium in Deo”.

Per quanto riguarda il rapporto con la Chiesa, cosa pensa del ruolo delle donne nel sacerdozio, nel diaconato e nella predicazione? Come vede possibile la parola delle donne sull'altare?
La questione della partecipazione delle donne al ministero della Chiesa presuppone l'evidenza di un fatto: non si è mai trattato per le donne di rivestire funzioni propriamente sacerdotali – non vediamo mai una donna offrire il sacrificio eucaristico, conferire una ordinazione, predicare in chiesa; dall'altra, tutta la storia del cristianesimo, in particolare quella dei primi secoli, mostra una cospicua partecipazione delle donne alla missione, al culto, all'insegnamento (J. Daniélou). Papa Francesco ha riaperto la discussione sul diaconato femminile nel memorabile incontro del 13 maggio 2016 con le superiore generali. Le sue parole: «Non c’è alcun problema che una donna – una religiosa o una laica – faccia la predica in una liturgia della Parola. Non c’è problema. Ma nella celebrazione eucaristica c’è un problema liturgico-dogmatico […]. Qui c’è un altro mistero. È il mistero di Cristo presente, e il sacerdote o il vescovo che celebrano 'in persona Christi'». Nella questione, squisitamente teologica, occorre tenere presente sia il Codice di Diritto Canonico (canone 767 §), sia l'Istruzione interdicasteriale del 1997, che l'istruzione "Redemptionis sacramentum" del 2004 come il "Direttorio omiletico" emanato nel 2014 dallo stesso papa Francesco. A questo proposito ricordo, condividendole, le parole del monaco laico, fondatore della Comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi che, in un articolo dell’Osservatore Romano scrive: «Gesù ha predicato nelle sinagoghe di Nazareth e di altre città senza essere né un sacerdote né un rabbino ordinato, ma lo ha fatto per carisma profetico e perché incaricato dai capi delle diverse sinagoghe. E non dimentichiamo neppure che, quando un vescovo voleva impedire al laico Origene di predicare, gli altri vescovi replicarono: «Dove c’è qualcuno capace di essere veramente utile ai fratelli nella predicazione, sia dai vescovi chiamato a predicare al popolo» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica vi, 19, 18). Ce n’è ad abundantiam nella tradizione e nella storia della Chiesa per aprire il cuore alla fiducia».
Intervista a cura di TIziana Bartolini

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