Il caso Willy: dalla razza all’etnia il rifiuto del “diverso”
Per il “branco” di Colleferro, Willy Monteiro Duarte, di origine capoverdiana, ma per nascita e cittadinanza italiana, rappresentava il capro espiatorio perfetto: negro, quindi “inferiore” per motivi razziali, ma “integrato” nella società ita
Giovedi, 17/09/2020 - Per evitare di demonizzare il “branco” di Colleferro e/o considerarlo un caso isolato, dobbiamo valutare almeno due aspetti: a) collocare i fatti nel contesto economico, sociale in cui si verificano; b) chiederci fino a che punto il razzismo, destituito della valenza biologica è ancora presente nella nostra cultura, nei nostri metodi di classificare la diversità (usi, costumi, credenze, rituali, colore della pelle, provenienza…). Aspetti importanti perché ci aiutano ad interpretare i comportamenti, anche quelli devianti.
L’efferato assassinio di Willy Montorio Duarte, di origine capoverdiana, nato nel nostro paese e cittadino italiano, è opera del “branco”, un gruppo di giovani, maschi, palestrati, arroganti, intimidatori nei confronti dei “diversi”, è avvenuto a Colleferro, una cittadina a 50 km dalla Capitale.
Colleferro, dopo la Seconda guerra mondiale, è stata per lungo tempo una città della grande industria, dal DDT ai missili, dai satelliti ai treni, ai cementi innovativi di Italcementi, già medaglia d’Oro a Expo, ha vissuto anni di benessere, divenendo punto di riferimento nazionale e internazionale, per la grande industria, e punto di riferimento dell’intero comprensorio per il lavoro, per il commercio e il mercato, e per i servizi alla persona (ospedale – scuole – impianti sportivi – trasporti). Tutto questo negli ultimi venti anni è andato sparendo a causa della crisi generale, della industrializzazione del Paese e, in prima istanza, di una politica locale poco incline a strategie di lungo periodo (colleferrocommerciale.com/storia).
I giovani di Colleferro, per i quali la città rappresentava motivo di orgoglio e la speranza di un futuro lavorativo economicamente sicuro, si è dissolto. Colleferro è divenuto un dormitorio per i pendolari, per gli immigrati che a Colleferro trovano abitazioni ad affitti contenuti, ma che vengono percepiti come una ulteriore caduta di possibilità di lavoro per gli autoctoni.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, relativo al rifiuto e all’aggressione dei “diversi” in senso raziale, è necessario analizzare gli atteggiamenti generalizzati di rifiuto nei confronti della “diversità”. Oggi il termine razza è stato sostituito dal termine etnia, etnico, per occultare la ideologia razzista messa al bando dallo sterminio nazista. Ma la percezione in senso raziale del rapporto tra Noi e gli “Altri”, tra we group e out group rimane con tutta la violenza discriminatoria. Per intendere il significato di etnia, come sostitutivo della categoria razza, specifica della ideologia razzista, riporto il modo di etichettare e di giudicare la “diversità” dell’outgroup, riferito agli immigrati africani da parte di alcuni mass media italiani. Mi riferisco al quotidiano Il Tempo, ad un articolo uscito il 28/02/1992, quando in Italia è esplosa la questione immigrazione. L’articolo dal titolo “Etnia/delinquenza: una mappa precisa”, tratteggia il profilo delle attività illecite nelle quali sono “specializzati” i vari gruppi etnici. Ma chi sono gli “etnici”? lo stesso giornale, in prima pagina, li definisce: “…un esercito senza patria e senza bandiera: le truppe della “mala nera” la criminalità di colore”. Si riproduce qui la contrapposizione superiore – inferiore, civile – incivile.
Dal 1992 molto tempo è passato per imparare a conoscere, a capire come la “diversità” dell’out group rappresenti una risorsa che arricchisce non solo la nostra economia, ma anche la nostra identità culturale. Ma non è così, anzi! Col passare del tempo, la “diversità” dell’out group in senso razziale, viene esplicitata, accentuata come un dato di fatto incontrovertibile. Ancora oggi, nel 2020, il razzismo è ben vivo, cambia solo il termine con cui è identificato. Al termine razza è stato sostituito quello di etnia. A questo proposito è significativo il modo con cui, ad esempio, vengono registrati i pazienti in un ambulatorio radiologico romano, al quale mi sono rivolta per un’analisi. Nel referto radiologico (08/06/2020) sono riportati i dati anagrafici del paziente: nome, cognome, età, sesso, e, come ci si potrebbe immaginare, nazionalità, ma al posto di nazionalità, o cittadinanza è scritto “etnia”. Per quanto riguarda la mia persona, essendo italiana, romana, per nascita, identità ecc., l’etnia conferitami è stata: BIANCA.
Questi esempi, ma ce ne potrebbero essere molti altri, sono illuminanti per avere strumenti per interpretare la feroce aggressione mortale di Willy.
Per il “branco” di Colleferro, Willy Monteiro Duarte, di origine capoverdiana, ma per nascita e cittadinanza italiana, rappresentava il capro espiatorio perfetto: negro, quindi “inferiore” per motivi raziali, ma “integrato” nella società italiana, nel senso di godere degli stessi diritti di cittadinanza e, quindi, avere uno status sociale, giuridico come il loro, essere un loro “pari”. Ciò non era tollerabile. Per il “branco” di Colleferro Willy era e rimaneva un negro che usurpava i diritti di eguaglianza di cui loro erano i legittimi portatori, i quali hanno costruito la propria identità nel rapporto superiore – inferiore. La cittadinanza conferita a Willy annullava la differenza di “razza” visibile nel colore della pelle e nell’origine africana di Willy. I membri del “branco” si sentivano depauperati della propria percezione di superiorità raziale. Questa percezione – ideologia, tradotta nei rapporti interpersonali we group – out group, può determinare, come nel caso di Willy, l’insorgenza di una intolleranza nei confronti del diverso: un negro, che per la sua inferiorità raziale non può essere come uno di Noi; se lo diventa per l’”ingiusto” attributo di cittadinanza conferitogli, suscita rabbia, rifiuto, violenza. Willy come i suoi simili, doveva essere punito, annullato il suo status, percepito come un insulto, una “eguaglianza” usurpata.Il clamore suscitato dall’assassiniodi Willy, ha stupito non pochi, tra i quali i parenti di chi ha commesso il crimine, “Willy …in fondo era solo un nero”
Queste mie considerazioni hanno lo scopo diesortare a riflettere sul razzismo presente tra noi, e aprire una ricerca sulle radici dell’odio, un odio in grado di sollecitare pulsioni distruttiveverso “l’Altro”, la “diversità”.
Marcella Delle Donne
Professoressa di Sociologia delle Relazioni Etniche
Università di Roma “Sapienza”
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