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Il caso Fedeli, tra titoli di studio conseguiti ed obiettivi politici auspicati

Il caso Fedeli, tra titoli di studio conseguiti ed obiettivi politici auspicati

Valeria Fedeli risulta incompatibile con la funzione di ministra all' Istruzione, soprattutto a chi continua a porre ostacoli meramente ideologici all’avvio dell’educazione di genere nelle scuole pubbliche italiane.

Venerdi, 16/12/2016 - In questi giorni si sta manifestando una sorta di accanimento terapeutico preventivo nei confronti della nuova ministra all’Istruzione, Valeria Fedeli. Eppure di alcun altro rappresentante governativo si è così sviscerato il percorso scolastico per attestarne l’incapacità preliminare a rivestire le sue funzioni istituzionali e, tanto per citare un esempio, altrettanto non si è compiuto nei confronti della ministra Lorenzin che senza alcuna laurea ricopre il ruolo di ministra della Salute. Della neo titolare del dicastero all’Istruzione viene scandagliata, soprattutto, la sua carriera di studi, non tanto per certificare o no la sua idoneità a ricoprire questo ruolo quanto piuttosto perché “è la rappresentante politica che più di chiunque in questi anni si è spesa perché nelle scuole entrassero e fossero attuate le teorie di genere” (Generazione famiglia). Addirittura la stessa associazione ha definito la nomina della senatrice “una dichiarazione di guerra totale al popolo del Family day”, invitando a manifestare “tutti al Miur”.

Risulta, quindi, evidente quanto gli attacchi a carattere personale nei confronti della neo ministra siano strumentali, come altrettanto è palese la causa di questa operazione per così dire bellica: la senatrice Fedeli è stata una delle promotrici di un’iniziativa legislativa per la sensibilizzazione contro i femminicidi e le violenze sulle donne, le discriminazioni di genere, il bullismo e l’omofobia per il tramite di appositi corsi in classe. Ciò la rende ovviamente incompatibile con la funzione di ministra all’Istruzione, soprattutto agli occhi di chi continua a porre ostacoli meramente ideologici all’avvio dell’educazione di genere nelle scuole pubbliche italiane. Se da parte di costoro si è giunti persino all’invenzione del mostro del gender, per veicolare nei genitori la paura che con tale insegnamento i propri figli potessero essere costretti a mutare il loro orientamento sessuale, la ministra Fedeli non poteva attendersi di ricevere un trattamento migliore.

L’oscurantismo, ora velatamente ora palesemente, cala in maniera più che gravosa sulle istituzioni scolastiche nazionali, che invece devono applicare il comma 16 della legge 107/2015 di riforma su “La Buona Scuola”. Articolo che recita testualmente: “Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate” dalla c.d. legge sul femminicidio. Tale comma “non fa altro che recepire in sede nazionale quanto si è deciso nell’arco di anni, con il consenso di tutti i Paesi, in sede europea, attraverso le Dichiarazioni, e in sede Internazionale con le Carte sottoscritte dalle istituzioni italiane” (op. cit.), una per tutte la Convenzione di Istanbul.

L’ex titolare del dicastero, Stefania Giannini, sin dallo scorso anno aveva intrapreso il cammino istituzionale per l’emanazione di apposite Linee guida in ottemperanza alla suindicata Convenzione che, insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità, obbliga ad inserire l’educazione di genere, nonchè quella sentimentale, nei programmi scolastici. Nel luglio scorso addirittura ne aveva annunciata la promulgazione per il successivo mese di ottobre, ribadendo che: “Se ci fermiamo davanti al tabù, se ci fermiamo davanti alla paura del linguaggio, ecco che i risultati sono quelli che abbiamo tutti davanti agli occhi”. Ecco quindi che la battaglia scatenata verso la ministra Fedeli, rea di avere presentato una specifica proposta di legge per l’avvio dell’educazione di genere negli istituti scolastici pubblici, si inscrive in quel clima di ostracismo ideologico verso il MIUR (Ministero dell’Istruzione, della Ricerca e dell’Università), che pur “intende supportare e sostenere attivamente i tanti studenti, docenti e dirigenti scolastici impegnati nel difficile lavoro quotidiano, affrontando le problematiche relative a tutte le forme di discriminazione e contrastando ogni forma di violenza e aggressione contro la dignità della persona” (fonte MIUR, Prot. AOODPIT n. 1972 del 15/09/2015).

La scuola italiana sempre più appare il terreno fertile per scontri ideologici non subordinati ad altri scopi, querelle che non potranno comunque impedire l’applicazione delle obbligatorie normative comunitarie ed internazionali. E pensare che nei Paesi scandinavi l’educazione di genere si insegna anche facendo allattare alle madri i propri neonati all’interno delle classi delle scuole primarie, al fine di fare comprendere ai bambini sin dalla tenera età l’importanza del ruolo della donna. Il problema non è solo formale, nel senso che l’Italia non può continuare ad essere il fanalino di coda in Europa per quanto attiene alla legittimazione di questi percorsi didattici. Diventa invece sostanziale quando ancora non ci si impegna nelle scuole italiane a creare consapevolezza al riguardo della necessità di ostacolare sin da piccoli l’idea che alcune vite contino meno delle altre. Non v’è chi non veda che le istituzioni scolastiche, super partes, debbano scegliere tra le diverse opzioni in campo nell’interesse supremo del bene comune. Ossia del contrasto netto e fermo alle discriminazioni basate sul genere d’appartenenza, di modo che si inizi ad educare sin da bambini al rispetto delle donne e di chi sceglie liberamente della propria vita sessuale.

Come pretendiamo di opporci realmente alla violenza sessuale ed all’omofobia, se non gettando le basi di una cultura nuova del rispetto, che si stagli ben delineata nella nostra scuola pubblica? Mica anche su questo versante dovremmo ricorrere alle aule giudiziarie per affermarla, sancendo per l’ennesima volta la sconfitta di una classe politica sorda ai bisogni della propria collettività di riferimento? Oppure dovremmo attendere colposamente che le istituzioni comunitarie comminino all’Italia l’ennesima sanzione per non avere ottemperato alle normative previste in materia di promozione dell’autodeterminazione consapevole e del rispetto della persona, così come stabilito pure dalla Strategia di Lisbona 2000? A queste, come ad altre correlate, domande c’è solo da dare le idonee risposte da parte delle istituzioni competenti, smettendola di contribuire a ingenerare un clima velenoso di sospetto e di maldicenza. Come nel caso della nuova ministra all’Istruzione al sol fine di intimorirla nella prosecuzione del cammino intrapreso, congiuntamente a quella precedente, nella direzione di rendere concretamente operative le Linee guida sull’avvio dell’educazione di genere nelle attività didattiche.

Pitagora affermava che occorre educare i bambini perché non sia necessario poi punire gli uomini, ragione per la quale chi si impegna a rendere concreti gli insegnamenti in tale direzione non potrà che essere plaudito. Se poi si vuole impiegare il proprio tempo ad indagare sulla carriera di studi di Valeria Fedeli, lo si faccia anche per comprendere come l’abbia capitalizzata nella sua vita professionale per metterla successivamente al servizio del ruolo istituzionale che è chiamata a ricoprire. Screditarla a livello personale non serve, perché la posta in gioco è talmente alta che le donne italiane sperano vivamente che continui ad onorare le scelte politiche a loro favore nel suo percorso da ministra dell’Istruzione. Non c’è laurea che tenga, se non si ha la tenacia e la determinazione di mettere le proprie competenze ed esperienze al servizio di un obiettivo alto, come in questo caso iniziare a gettare le basi di una nuova cultura del rispetto dei generi nelle scuole pubbliche italiane. Se la ministra Fedeli rispetterà questo impegno ideale, allora sì che un ulteriore riconoscimento se lo conquisterà sul campo e non ci sarà alcun*che riuscirà a denegarglielo. Quello di una donna che da “politica, buona politica, ha come competenza uno sguardo capace di immaginare quel che ancora non c'è, perché la politica che non è profezia fa anche cattiva governance” (Michela Murgia). E la profezia di Valeria Fedeli, come di tante altre donne italiane, è che l’Italia diventi un Paese a misura di donna.

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