Due progetti artistici per superare pregiudizi
Metri e metri di filo spinato che corre alto svettando verso il cielo azzurro di giugno. Un silenzio corposo a poco più di un chilometro da via Tiburtina, consolare nota per il traffico assordante a tutte le ore del giorno. Il frastuono da queste parti non arriva, nemmeno un sibilo. Silenzio, fuori e dentro. Siamo nel carcere di Rebibbia, l’unico rumore, quello delle chiavi. Ferro che apre, ferro che chiude. Armadietto n. 81. Lasciare il cellulare. Al momento non c’è posto per mettere anche la borsa. Gli spazi più grandi sono tutti occupati. Si esce di nuovo all’aria aperta, ma in realtà si sta entrando dentro.
Superate le sbarre che separano personale e detenute, si accede alla sala proiezione, dove sono già in tante, emozionate e trepidanti, per rivedersi nel docu-film del regista iraniano Shahram Karimi, “Open the door”, uno dei film presentati lo scorso fine settimana durante il Festival Senza Frontiere, che lo ha anche prodotto. “Invece di organizzare un red carpet noi preferiamo aprire una porta ed essere un festival vicino al tessuto sociale” – spiega l’organizzatrice dell’evento, Fiamma Arditi. Sharam, che è stato accompagnato nelle riprese da Luca Lancise, ha già realizzato un primo video nel 2013, presso il Carcere di massima scurezza di Spoleto. Dopo questa esperienza con le donne di Rebibbia, ha intenzione di girare un terzo capitolo del suo racconto dentro un carcere minorile, sempre in Italia. Il suo intento finale è un’opera unica in cui mostrare i diversi contesti carcerari e le storie che li attraversano. Si tratta di un’opera artistica, oltre che documentaria, e lo si capisce già osservando la locandina che ritrae le donne, avvolte da un drappo giallo, come i personaggi reali di un’ultima cena.
I volti delle protagoniste e quelli delle presenti in sala tradiscono origini geografiche molto differenti e storie uniche, spesso complesse e dolorose. “Io mi sento libera da quando sono entrata qui dentro. Fuori ero completamente succube del mio compagno.” Queste le parole di una detenuta in una scena del documentario. Parole che fanno a cazzotti con qualsiasi ragionamento logico e che aprono gli occhi sugli scenari drammatici che possono esserci fuori. Dunque che cosa significa essere libere? La libertà è forse soltanto uno stato mentale? No, di certo. Le sbarre si sentono e il desiderio di oltrepassarle è reale. Tornare dai figli, dai nipoti, alla propria vita, per riprendersi il mondo “questa volta più guerriere”, dice una ragazza con i capelli raccolti in minuscole treccine in stile africano. “E se fuori una non c’ha niente?” si chiedono alcune, lasciando aperti interrogativi a cui nessun documentario può rispondere e di cui qualcuno sarebbe tenuto a farsi carico. Prima di lasciare la sala, un’altra detenuta, si alza in piedi e dopo aver ringraziato il regista, si rivolge a se stessa e alle compagne e a tutti i presenti. “Se la vita è un libro da sfogliare, quella del carcere per noi è solo una delle pagine. Ce ne saranno delle altre, magari più belle.” Applausi per lei che restituisce a quel “riprendersi il mondo più guerriere” una connotazione di speranza reale sul futuro di queste donne non appena saranno nuovamente libere.
Alcune di loro sono state protagoniste anche di “Donne dentro e fuori” presentato martedì 10 giugno all’Ara Pacis. Si tratta di un progetto artistico realizzato dalle allieve del Liceo Artistico Statale “Enzo Rossi”, presso la Casa Circondariale di Rebibbia. Dipinti, ceramiche, mosaici e tessuti, coloratissimi e pieni di pathos che verranno venduti presso il circuito museale romano e in alcuni punti vendita Unicoop Tirreno, partner del progetto. Con i ricavi si finanzieranno alcune borse di studio per le allieve. Presenti all’incontro la Preside della scuola Mariagrazia Dardanelli e il Prof. Reale che ha seguito le ragazze, oltre alla direttrice del carcere Ida Del Grosso, a Edda Billi, femminista e presidente dell'AFFI - Associazione Federativa Femminista Internazionale e a Maria Laura Annibali, regista, garante per le pari opportunità alla regione Lazio, e presidente dell’associazione Dgay project di Roma, che in passato ha presentato i suoi documentari a Rebibbia. Un’occasione per parlare della necessità di permettere alle detenute di sperimentare nuove parti di sé attraverso l'arte. Antonella, una delle allieve del corso, fa cenno al suo passato complicato. “Non amavo la vita quando stavo fuori, ma adesso sto ricominciando ad apprezzarla anche grazie alle attività che facciamo qui dentro.” E’ al suo secondo anno di Università a Scienze dell’educazione e sembra contenta. Il suo volto suonava familiare perchè aveva preso parte al documentario di Karimi. Davanti alla telecamera aveva detto: “Io passo molto tempo ad immaginare. Ma non penso a cose impossibili da realizzare, penso a cose vere, sogni che potrei vedere concretizzati. Mi serve per aprire le sbarre della mente.” Arte e cultura ancora una volta si confermano le uniche strade per aprire a nuove possibilità anche nei contesti più complessi e dolorosi, e per colmare le distanze tra dentro e fuori, nell'ottica di annullare, anche fisicamente, questo confine.
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