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Il capo cattivo

Il capo cattivo

Strategie private -

Melchiorri Cristina Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2006

Lavoro da tre anni in un’azienda della grande distribuzione, che in questi giorni mi ha fatto frequentare un corso di formazione per diventare capo di un punto vendita, dove lavorano moltissime donne. Il messaggio è stato “i capi devono essere cattivi!”. Vorrei la sua opinione.

Alessandro Incerti (S Donato Milanese- Milano)



Caro Alessandro,

ma con tante donne perché il corso per diventare capo la tua azienda lo fa frequentare a un uomo? Per rispondere alla tua domanda, che non è affatto banale, intendiamoci sul concetto di “capo cattivo”. Il mondo del lavoro è zeppo di esempi di capi arroganti, prepotenti, che abusano del loro potere. Nella cultura tutta maschile del management il vero capo è un “duro”, quello che riversa sui diretti collaboratori tutta la pressione e la tensione che subisce dall’azionista o dal suo capo diretto. Qualche esempio? Sergio Monorchio, amministratore delegato della FIAT, convoca riunioni con manager e consulenti alle 6.30 del mattino, Alberto Vitaloni, capo della UNICHIPS Italia si inquieta spesso nelle riunioni insultando i suoi manager e scagliando quello che ha sotto mano, posacenere compreso. Noto è l’episodio in cui Vittorio Mincato, presidente di Poste Italiane, nel suo precedente ruolo di Amministratore Delegato di ENI fece rientrare subito i manager che erano appena sbarcati in Giappone per un convegno su gas ed energia, senza avvisarlo.

Partiamo allora dal condividere le caratteristiche di un “buon capo”: un buon capo è esigente, nel senso che non si accontenta di lavori fatti in modo approssimativo, ma punta a far crescere le capacità professionali di chi lavora con lui o con lei. Se chi collabora ha esperienza , non interviene nel percorso di realizzazione, lo delega, e chiede con chiarezza cosa vuole e quando. Altrimenti, se chi lavora è alle prime armi, insegna, supporta, coinvolge, corregge gli eventuali errori senza ferire chi li ha commessi. Quando deve richiamare qualcuno lo fa in privato e senza umiliare la persona.

Sa distinguere l’errore di inesperienza da quello di trascuratezza o di superficialità.

Disse a un giornalista Julio Velasco, quando era allenatore della squadra italiana di basket femminile, commentando un’importante vittoria: ”un bravo allenatore sa sempre capire l’atleta che ha di fronte. Per stimolare un’atleta svogliata posso decidere di lasciarla in panchina in una gara importante….ma se lo faccio con un’atleta che sta già dando il massimo so che la distruggo…”. Così è anche nel lavoro. Il buon capo non è un “amicone”, è una persona che sa dare fiducia, conoscenza e costanti stimoli per crescere le persone che lavorano con lui o con lei. Cerca in sostanza di essere il capo che vorresti avere come capo.



(13 aprile 2006)



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