Mercoledi, 08/04/2009 - Sguardi e poppe da madonne perverse: l’immagine della donna è ancora divisa tra il bene ed il male. Mentre il dominio maschile è costellato da pensieri e azioni a cui le donne partecipano passivamente da secoli. Vogliamo discutere della pedagogia di Adamo ed Eva o della violenza del potere, o ancora della visione stereotipata dei generi alimentata tra i banchi di scuola? Chi stupra provocando sangue e dolore non è mosso dal desiderio sessuale quanto dalla volontà di sopraffazione, di rivalsa, di annullamento. Clinicamente, in molti casi di violenza non vi sono neppure tracce di eiaculazione maschile. E’ tempo che lo stereotipo dello stupratore, toro maschile, assetato di desiderio “da non volersi staccare dal corpo esanime della donna” cada. E cada per sempre dalla visione che vi sia qualcosa di irrefrenabile nell’uomo. Al contrario, esiste – deve esistere- la possibilità di orientare la forza nella ragione. E’ questa la sola speranza. E’ in questa direzione che le istanze supreme – Chiesa, Stato e Scuola, dovrebbero incoraggiare i loro sforzi. Il sociologo francese Pierre Bordieu denuncia il dominio maschile come una costruzione mentale, una visione del mondo con la quale l’uomo appaga la sua sete di dominio. “Una visione talmente esclusiva- denuncia Bourdieu- che le stesse donne, che ne sono vittime, l’hanno integrata nel proprio modo di pensare e nell’accettazione inconscia di inferiorità”. La sopraffazione delle donne da parte degli uomini non è l’ordine delle cose ma l’arbitrio su cui si fonda la storia del dominio maschile nel mondo. A partire dai luoghi apparentemente tranquilli- le statistiche sulle violenze domestiche parlano chiaro- alla vita politica. Ogni spazio in cui l’individuo esercita il suo potere- da quello domestico a quello pubblico- è condizionato da una visione fallocratica alimentata nell’inconscio di uomini e donne. E’ essenziale riuscire a immaginare soluzioni capaci di riportare la questione sui binari di una riflessione scevra da pregiudizi e da stereotipi. Cominciare con il correggere l´ingiustizia della violenza con la rapidità del processo e la certezza della pena è molto importante. Ma anche l’ingiustizia dei modelli basati sulla divisione dei ruoli tra uomini e donne va considerata adeguatamente. Pensare le ronde di uomini che vanno in branco per proteggere le donne è un paradosso. Quello che serve alle donne come agli uomini è garantire ciò di cui la libertà si nutre: diritti e conoscenza contro violazioni e usurpazioni. Ripartire dall’educazione e dal buon esempio è certamente un modo. Non è degno di una società fondata sui diritti civili fare circolare con disinvoltura le immagini di donne terrorizzate e sottomesse dai maschi – desiderio latente che evidentemente la pubblicità vuole appagare. Bisogna maturare la consapevolezza che solo l’amore nobilita l’uomo. Per fortuna- anche se non fanno notizia- non sono pochi gli uomini che sanno amarle e rispettarle. Quelli disposti a fare un passo indietro e mettere in discussione i valori di potenza su cui si fonda l’identità maschile. Ha senso parlare di emancipazione oggi se ognuno- uomini e donne - è disposto a demolire l’ingannevole certezza che leggi e le sanzioni siano un’alternativa esclusiva alla capacità di conquistare e costruire relazioni nuove. Serve un nuovo umanesimo dell’amore accanto a un ottimismo antropologico. Il consiglio ai nostri governanti giustamente preoccupati dell’inefficacia dell’ordine pubblico– Gianni Alemanno in primis- é quello di non rifugiarsi dietro interpretazioni strumentali dell’escalation di violenza. Semmai rileggere la teoria politica di Thomas Hobbes. Nel Leviatano (1651), la legittimità dell’ordine politico si fonda, in primo luogo sul patto stipulato tra gli individui e, successivamente, dalla capacità dello Stato di garantire protezione ai “sudditi”. Il presupposto della concezione hobbesiana è quella di una natura umana irrimediabilmente caratterizzata da passioni che disturbano e minacciano l’esistenza della società stessa. Ma la proposta “culturale” del Leviatano di Hobbes è la possibile riconciliazione tra la natura umana e il dovere civile: è vero che la maggior parte degli individui siano in realtà irrazionali e ignoranti, ma sono nondimeno potenzialmente razionali, con l’educazione e la disciplina. Quando si dice liberalismo moderno, ma non attuale. L’ultima scena denunciata è quella “normale” di una barbona cinquantenne, “tranquilla e stimata- aggiungono i carabinieri del posto” che era solita dormire presso la stazione ferroviaria di Firenze. Un posticino reso sicuro da un cancello che dopo la mezzanotte veniva chiuso. L’uomo, dal racconto di cronaca- avrebbe scavalcato il cancello per violentare la donna, dopo averla pestata. Le ha fracassato il volto e il corpo, rompendole il setto nasale e i denti. Ma che bisogna c’era di ridurla a brandelli se lo scopo era quello di un’unione carnale senza consenso? No. Quell’aggressione non era il fine, non aveva un solo obiettivo ma era alimentata da un carico indefinito di frustrazioni, di rabbia, di fallimenti, di odio. Tutti elementi che rendono un uomo soltanto un corpo carico di passione per la morte e per la vendetta. Strumenti inutili e pericolosi per la società. Uomo senza qualità, incapace di pensare, mosso da ossessioni. Fino alla follia- inconciliabile frattura tra la ragione e la pulsione. E la violenza finisce per configurarsi come un atto che- come il suicidio- trasferisce la “crisi” di un individuo, la complessità del suo vissuto, nel recinto di uno spazio troppo lontano e oscuro. In qualche caso anche troppo sporco e tenebroso. Insopportabile. E contro il quale ogni misura non sembra mai essere abbastanza. Il clichè della cronaca è identico a se stesso e risponde al bisogno di ordine, di rappresentare i due mondi, quello femminile e quello maschile, quello della vittima e dell’aggressore, come fossero due mondi separati e netti fin dalle origini. L’uno corrisponde al bello, al buono, al povero, al debole e fragile mondo delle sottomesse e l’altro al violento, prevaricatore, animalesco mondo dell’orco maschile. Ed è proprio questa l’immagine di una divisione che esiste e continua a crescere. Ma non solo tra uomo e donna. E’ piuttosto la divisione che ogni giorno nel mondo uccide la speranza di vivere senza oppressione, senza abusi, senza ossessione, senza persecuzioni. Ognuno, a modo suo, al mondo è costretto a vivere con la paura di perdere quello che ha, di non essere considerato per quello che è. E’ una crisi di identità che supera per gravità quella economica e finanziaria. In India vivono da decenni con tassi di povertà diffusa che nella nostra civile Italia non conosciamo. Eppure in quel Paese non avvengono le perverse aggressioni che nelle nostre città i tori scatenano sulle donne. C’è la Chiesa, lo Stato e la Scuola. Ma anche la Stampa e la Famiglia. I modelli di incomprensione che generano violenza sono diffusi a ogni grado. La violenza si ripete nelle strade come negli spazi chiusi- che per qualcuno sarebbero quelli “giusti”. E’ recente la notizia della condanna di un uomo, in Austria, che per 24 anni ha tenuto segregata e violentato la figlia Elisabeth di 43 anni , facendole partorire sette figli nella sua cella sotterranea ad Amstetten. Dice a sua difesa di avere stuprato sì ma non ucciso. Come non fosse il primo strumento per provocare lo spietato fine. (23 marzo 2009)
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