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Il ‘futuro debole’. Intervista a Gianni Vattimo

Il ‘futuro debole’. Intervista a Gianni Vattimo

Futuro / 1 - Varie forme di potere coltivano la paura per limitare le libertà. Per guardare avanti occorre osservare attentamente le manipolazioni in atto

Ribet Elena Sabato, 15/01/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2011

Ci sono parole che appartengono a tutti. Sono proprio le parole collettive a essere (ab)usate dal potere, che è sempre alla ricerca di consenso e di voti. Spesso sono parole semplici, ripetute migliaia di volte, che entrano nell’immaginario collettivo come simboli, come messaggi subliminali. Una di queste è: ‘futuro’.

Da un lato si parla dei desideri e delle aspirazioni del popolo, dall’altro si agisce su di esso attraverso la paura. Mentre gli scienziati si interrogano su ‘La Fine del Mondo. Istruzioni per l’uso’ (titolo del Festival delle Scienze 2011, dal 20 al 23 gennaio a Roma), i movimenti territoriali, quelli che si organizzano ‘dal basso’, da nord a sud, tentano di difendere gli spazi di partecipazione democratica, vogliono essere protagonisti del proprio futuro e praticare una politica ‘altra’, capace, lungimirante e attenta. Qualcuno pensa a nuovi modi di raccontare l’Italia, “impoverita dalla speculazione, rassegnata al degrado, narcotizzata da una informazione distorta, devastata da una enorme colata di cemento” come si legge in un appello unitario di vari gruppi, tra cui il Movimento No Tav e il Movimento Difesa del territorio Area Vesuviana. Ne è un esempio anche il film documentario ‘Il futuro del mondo passa da qui / City Veins’, abbinato a un osservatorio crossmediale in una terra di nessuno, periferia d'Europa, crocevia di storie (Niccolò Bruna/ColombreFilm - Babydoc Film, per la regia di Andrea Deaglio). Insomma ognuno protesta come può, e se ci chiediamo il perché, una risposta la rubiamo a Barbara Spinelli (in “Gioventù bruciata”, La Repubblica 8 dicembre 2010): “qualcos’altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l’esistere stesso; il perché e il come si vive l’oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro”. Su questi temi abbiamo intervistato Gianni Vattimo.





Entriamo negli anni ’20 del XXI secolo. La parola ‘futuro' suscita disagio e inquietudini, sia nelle giovani generazioni che vivono una 'precarietà a tutto tondo' sia nelle generazioni meno giovani. Secondo lei perché tanta paura del futuro?



Io credo che la questione della paura sia molto più generale. Quello che riguarda il futuro rappresenta solo una parte della questione. Noi viviamo in un mondo in cui la paura è diventata instrumentum regni. In Italia abbiamo una politica, come quella della lega e della destra, che è ispirata alla paura, ad esempio la paura che qualcuno ci porti via il lavoro, il patrimonio o la ‘sicurezza’. Lo stesso si può dire della svolta a destra dell’Europa, basti pensare alla democratica Svezia dove il partito neofascista è entrato in Parlamento. L’ondata di destra che disturba, o perturba, l’Europa è legata alla paura. Non so fino a che punto questa sia suscitata da pericoli reali oppure sia ampiamente e intenzionalmente coltivata. Molto è cambiato da quando è caduto il muro di Berlino. Prima avevamo paura della guerra tra i due colossi, i quali però si limitavano e contenevano a vicenda. In assenza di un ‘nemico’ occorre inventarne uno. Ora c’è il discorso sul terrorismo internazionale, un fantasma in parte giustificato in parte no. È ovvio che un mondo più integrato è anche più vulnerabile. Quello che accade in Italia può avere degli effetti nei Paesi circostanti, e viceversa. Il potere unico e il pensiero unico, il ‘consenso di Washington’, ci tengono disciplinati in questo continuo spavento che ci induce a sopportare limitazioni della libertà. Pensiamo a quanto si possa spostare più in là questa limitazione. Per entrare in territorio americano occorrono l’impronta digitale, il passaporto, la fotografia. Siamo, così, in cammino verso una dimensione ‘disciplinare’ sempre più intensa, in cui le persone non hanno chiaro se questo vada a loro vantaggio o a vantaggio di chi vuole tenerle buone. Il futuro è solo una parte di questo discorso. Occorre interrogarsi allora sulle ragioni di questo processo. Per fare un altro esempio, il problema ecologico non può essere considerato come problema a sé, perché l’ambiente è manipolato da qualche potere. Ho avuto di recente una discussione acerrima con un collega che sostiene che siamo minacciati da un totalitarismo tecnocratico. Bene, gli ho detto ‘dammi dei nomi e cognomi’. Ci sarà pure un totalitarismo tecnocratico, ma allora bisogna riconoscere che questo non va avanti da sé e capire chi lo maneggia.



Forse occorre una visione collettiva; per proporla, o anche solo per nominarla, secondo lei è più adatta la politica o la filosofia?



Io sono un cultore dell’undicesima Tesi di Marx su Feuerbach. I filosofi hanno interpretato il mondo, ora occorre cambiarlo. Nonostante tutto, quindi, penso sia più adatta la politica. Mi pare urgente risvegliare, magari anche con idee filosofiche, l’interesse per la politica. La gente si disinteressa troppo, un po’ perché delusa, poi perché c’è un peggioramento della situazione economica, sociale e culturale. Anche la stessa paura del futuro tiene lontani dalla politica, per assenza di aspettative e di prospettive si tende a tirare i remi in barca, ma questo significa andare alla deriva. Ciò che mi stupisce e che non mi sarei mai aspettato è che in Italia si stanno tollerando cose che in altre epoche la gente non avrebbe mai tollerato, sul piano dei diritti sindacali, della riduzione dei servizi sociali, per non parlare della chiusura di fabbriche e di attività produttive in tutti i settori. Fino a che punto si può resistere?



Le donne sono sempre in bilico fra spazio privato e spazio pubblico. Rispetto a un ‘futuro possibile’, il loro ruolo è al centro oppure, proprio a causa di questa collocazione sempre scomoda, sono destinate a restare al margine?



Conto molto sulle donne a cominciare proprio dalle ‘donne di casa’, da quelle donne che nello ‘spazio privato’ potrebbero far sentire, anche ai maschi, la gravità della situazione. Di quelle donne che, in quanto madri, hanno a che fare con il futuro impersonato dai figli e dalle figlie. Conto poi su quelle donne che hanno a che fare con le questioni familiari e lavorative, quindi sono le prime ad avere consapevolezza della mancanza di servizi sociali adeguati. Con questo non intendo dire che si debba spostare il compito rivoluzionario a qualcuno che non siamo noi, come Marcuse che vedeva il nuovo proletariato nel popolo del cosiddetto terzo mondo. Spero che le donne possano essere così al centro di un processo di cambiamento della società nel suo complesso.



Gianni Vattimo è nato il 4 gennaio 1936 a Torino. Filosofo, ha studiato con Hans-Georg Gadamer e Luigi Pareyson. Nelle sue opere Vattimo ha proposto un’interpretazione dell'ontologia ermeneutica contemporanea che ne accentua il legame positivo con il nichilismo, inteso come indebolimento delle categorie ontologiche tramandate dalla metafisica e criticate da Nietzsche e Heidegger. Indebolimento dell'essere che non si attribuisce più caratteristiche forti ma si riconosce più legato al tempo, alla vita e alla morte. Rimanendo fedele alla sua originaria ispirazione religioso-politica, ha sempre coltivato una filosofia attenta ai problemi della società. Il "pensiero debole", che lo ha fatto conoscere in molti paesi, è una filosofia che pensa la storia dell'emancipazione umana come una progressiva riduzione della violenza e dei dogmatismi e che favorisce il superamento di quelle ingiustizie sociali che da questi derivano. Da diversi anni impegnato in politica, Vattimo è attualmente deputato al Parlamento europeo nell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa, eletto nelle liste dell'Italia dei Valori come candidato indipendente.

 

(17 gennaio 2011)

 

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