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Il ‘dopo Mao’ e l’economia socialista di mercato

Il ‘dopo Mao’ e l’economia socialista di mercato

Cina / terza e ultima parte - Dal controllo delle nascite al ‘traffico delle mogli’, dalla scommessa delle Quattro Modernizzazioni (agricoltura, industria, difesa, ricerca) al riequilibrio economico, le contraddizioni e le lotte per i diritti delle do

Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2008

Con la morte di Mao Zedong si aprì una nuova fase della storia cinese contrassegnata da una politica di demaoizzazione e di modernizzazione. Chiuso il breve periodo di transizione neomaoista (1976-1978), Deng Xiaoping riconosciuto legittimo successore del Grande Timoniere durante il terzo plenum dell’XI Comitato centrale del PCC (dicembre 1978) impose un nuovo corso economico caratterizzato dal contemporaneo perseguimento della strategia del riaggiustamento e delle riforme economiche. Il riaggiustamento doveva porre rimedio ai difetti di un sistema economico che, avendo fatto riferimento al modello sovietico, non corrispondeva precisamente alle necessità cinesi. Il sistema di pianificazione fu reso più elastico da una parziale decentralizzazione e dalla reintroduzione, ai margini del sistema, di un mercato libero e di un piccolo settore di economia individuale. Le riforme economiche, partite inizialmente nelle campagne, portarono tra il 1978 e il 1984 alla decollettivizzazione progressiva del settore agricolo e al rilancio del settore industriale ed urbano, attraverso la liberalizzazione dei prezzi e delle imprese, e la creazione delle infrastrutture necessarie per far funzionare un’economia di mercato, conseguendo ritmi sbalorditivi di crescita. Il boom industriale del 1984/85 testimoniò le immense capacità d’impresa e di sviluppo industriale della società cinese. L’apertura della Cina ai prodotti, alle tecniche e ai capitali stranieri dimostrò anche il desiderio di questo paese di coniugare modernizzazione interna e inserimento nell’economia mondiale. I dirigenti cinesi, che rivendicavano una certa continuità politica e ideologica con i predecessori, ritenevano il paese avviato sulla strada dell’attuazione del “socialismo alla cinese”, dove vigeva un’economia mista, che nelle condizioni oggettive dell’economia planetaria era considerata l’unica strada realisticamente percorribile, in opposizione all’idealismo del “grande balzo in avanti” e agli eccessi della “rivoluzione culturale”.
Tuttavia, nel dare avvio all’economia socialista di mercato, la Cina si era imbattuta in non pochi problemi determinati dalle liberalizzazioni economiche. Ad esempio, nelle campagne, la liberalizzazione aveva favorito il ritorno dell’impresa familiare, che andava a sostituire le piccole unità di produzione o di lavoro (composte soprattutto da donne e anziani) già ben integrate nella vita economica e sociale dei villaggi. Ciò aveva comportato il declino del ruolo delle donne. Afferma Marie-Claire Bergère: “Le mogli, le figlie delle famiglie contadine lavorano ormai all’interno del nucleo familiare e sono sottoposte all’autorità del capofamiglia, che è anche il capo dell’impresa. Il padre o il marito si è sostituito al capo della squadra per la distribuzione dei compiti. Nessun punto-lavoro viene a mettere in risalto il contributo individuale delle donne ai redditi familiari: la retribuzione è in certi casi indivisa o nulla. La riforma tende a resuscitare un’autorità patriarcale. (…) Le donne della campagna hanno anche molto da perdere per il venir meno delle istituzioni mediche e di aiuto sociale, fino a questo momento finanziate con i fondi delle unità collettive. (…) Il rinnovamento dell’impresa familiare valorizza il ruolo del figlio: è il suo lavoro che permette di mantenere e sviluppare la produzione. (…) La madre che partorisce solo figlie è sempre stata disapprovata dalla società tradizionale. Ma nella Cina di Deng Xiaoping la combinazione di una riforma rurale che esalta l’impresa familiare, e di una pianificazione demografica, che si sforza d’imporre la necessità del figlio unico (introdotta nel 1978 - n.d.a.), dà una forza nuova all’antica maledizione”. La riforma tendeva nuovamente a confinare nell’ambito familiare il lavoro femminile privato di riconoscimento sociale e, di conseguenza, svalutato. Inoltre, nonostante la legge sul matrimonio proibisse il maltrattamento o l’uccisione delle bambine e delle loro madri, il nuovo meccanismo economico, facendo pagare i costi dei mutamenti in atto soprattutto ai soggetti più deboli, aveva favorito l’aumento esponenziale degli infanticidi femminili, creando nelle zone rurali più povere impressionanti squilibri demografici. Il ritorno a credenze e pratiche tradizionali e la ripresa delle reti informali di solidarietà (per lo più confinate a parenti e amici), come forte contraccolpo all’aumento delle disuguaglianze e alla perdita del supporto sociale pubblico, avevano ridato vigore ai clan familiari. E con la complicità della propria cerchia familiare, le donne, per sfuggire alla politica del figlio unico, “fanno appello a medici non autorizzati o a chirurghi occasionali pagati a mercato nero per procedere clandestinamente alla rimozione di sterilets (…) e fuggono nei villaggi vicini per partorirvi di nascosto” (Marie-Claire Bergère). La riluttanza della popolazione rurale di fronte alla limitazione delle nascite fu combattuta dalle autorità anche con metodi brutali. Tuttavia, la posta in gioco era troppo alta: se la crescita demografica nelle campagne non fosse stata controllata, la scommessa delle Quattro Modernizzazioni (agricoltura, industria, difesa, ricerca scientifica e tecnologica) sarebbe stata perduta. La pianificazione familiare era la prima e la più urgente di tutte le priorità nazionali.
Altrettanto complesso era lo scenario negli insediamenti urbani, dove le politiche di trasformazione delle imprese pubbliche avevano causato licenziamenti su larga scala. Secondo i dati riferiti da Elisabeth Croll, all’inizio degli anni Novanta le donne costituivano il 70% dei lavoratori “dismessi”. D’altro canto, la legge varata nel 1988 per la protezione del lavoro femminile, che imponeva alle aziende alti costi sociali per la maternità, si era di fatto ritorta contro le donne nel momento in cui si assisteva al disimpegno progressivo dello Stato nei confronti delle imprese e alla sostituzione del principio dell’incremento del reddito come funzione del solo incremento dell’occupazione con quello dell’incremento del reddito in relazione all’aumento dell’efficienza e della produttività. Ciò ebbe come effetto lo spostamento di gran parte della manodopera femminile nelle piccole ditte (meno controllate), in quelle a partecipazione straniera dove prevaleva il rapporto di lavoro informale o, infine, nei settori manifatturieri delle zone economiche speciali (create per attrarre maggiori investimenti stranieri e dove le attività economiche erano principalmente regolate dal sistema del mercato), in cui si lavorava per lo più senza contratto, senza orario e con miseri salari: in sostanza, con bassi costi di gestione e grosse quantità di forza-lavoro.
A questi problemi si aggiungevano le lacerazioni di un esodo massiccio dalle campagne, nonostante la realizzazione da parte delle autorità di un piano di ristrutturazione dello spazio rurale (lo sviluppo di piccoli paesi, nei quali potersi dedicare ad attività artigianali e industriali), per evitare gli effetti della destabilizzazione sociale. Questa migrazione, conseguenza dello scioglimento definitivo delle comuni agricole che, insieme con le unità di lavoro, costituivano le cellule di base della produzione, aveva riguardato molte giovani donne cinesi in cerca di un lavoro nelle grandi città come cameriere, commesse od operaie nelle industrie tessili ed alimentari. Oggi la maggior parte di queste sono occupate nel terziario (commercio e settore dei servizi), anche se alcune di loro cadono vittime del racket della prostituzione o sono rapite per essere poi rivendute come mogli. La pratica del “guaimai” (rapimento e vendita) è un vero e proprio commercio della schiavitù diffuso nel periodo pre-rivoluzionario e ricomparso dalla fine degli anni ‘70 in tutta la Cina. L’immiserimento, in particolare nelle zone rurali, aveva incoraggiato il traffico delle mogli, che era un espediente utilizzato per salvare i propri familiari dalla fame.
Nel 1992, con lo scopo di proteggere e migliorare la posizione delle donne, fu approvata una legge sulla tutela dei loro diritti e interessi, e la Federazione nazionale delle donne cinesi, impegnata a promuovere la parità tra uomo e donna, diffuse sul territorio un programma schematizzato nella “Dichiarazione delle quattro auto-referenzialità” (rispettare se stesse; avere fiducia in se stesse; fare affidamento su se stesse; migliorare se stesse), i cui punti confluirono nelle dichiarazioni governative della Quarta Conferenza sulle Donne organizzata dall’Onu e tenutasi a Pechino nel 1995.
Con l’elezione a presidente della RPC di Hu Jintao (2006) si apriva una nuova fase, il cui obiettivo era far uscire la Cina da una politica di sviluppo economico a tutti i costi, favorendo un’economia equilibrata che tenesse conto delle sperequazioni sociali, dei danni ambientali e della condizione della donna. A quest’ultimo proposito, il governo di Pechino lanciava il nuovo piano “Aiuto alle ragazze”, per creare un ambiente a loro favorevole, promuovere l’eguaglianza tra i sessi e correggere lo squilibrio nelle nascite, con l’elargizione d’incentivi economici e sociali alle famiglie con figlie. E in un paese dove il welfare era sempre più privatizzato, ciò era la conferma che la penuria di donne rimaneva una delle maggiori preoccupazioni del paese.

(12 febbraio 2008)

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